L’ospite di oggi della rubrica “Cinque domande, uno stile” è la scrittrice palermitana Giuseppina Torregrossa. Medico – ha alle spalle una lunga attività come ginecologa e si occupa da anni di sensibilizzazione e prevenzione del tumore al seno – esordisce nel mondo editoriale con “L’assaggiatrice” (2007, L’iride). Con il monologo teatrale “Adele” ha vinto nel 2008 il premio opera prima “Donne e teatro” di Roma. Segnaliamo, tra le numerose opere, “Il conto delle minne” (2009, Mondadori), “La miscela segreta di casa Olivares” (2013, Mondadori), “Il figlio maschio” (2015, Rizzoli), fino all’ultimo romanzo da poco in libreria “Morte accidentale di un amministratore di condominio” (2021, Marsilio).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
In principio è una sensazione, un profumo, una forte emozione che mi muove verso un’idea. Talvolta persino un oggetto isolato. La moka per esempio mi ha ispirato nella miscela segreta di casa Olivares. Poi c’è il vissuto: un ricordo, un paesaggio, un’avventura. Seguono lunghi mesi di cova con gli occhi chiusi. Infine l’idea e allora scatta una sorta di imperativo ipotetico e comincio a scrivere. Lascio con fatica i cuscini che mi hanno accolto per mesi e rimango incollata a scrivere per tutto il tempo necessario. Fin quando mi rendo conto di aver conseguito l’obiettivo. Allora mi sento in pace con me stessa.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Credo entrambe le ipotesi. La conclusione appare evidente quando l’ultima parola risuona in tutto il romanzo, la frase aggiunge eleganza a tutto il testo, è in armonia con quanto affermato fino a quel momento, e apre d’altra parte nuovi orizzonti. Si evidenzia poi come necessaria a rappresentare lo scopo della storia che così può ritenersi conclusa.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”
Ho una psicologia contorta e nulla di quello che voglio fare è mai così presente alla mia coscienza. Non ho mai pensato di voler scrivere, semmai si è trattata di una necessità. Forse ho pensato “ho bisogno di scrivere”.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Lo stile rappresenta il mio tono di voce. Un timbro che mi rende unica. Non credo di aver mai pensato allo stile. Mi sono espressa con la mia voce e questa mi ha resa riconoscibile tra gli altri. No, non posso definire la mia voce una gabbia, semmai un potente mezzo espressivo.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
La letteratura è un’arma potente che non ha padroni e pertanto può permettersi il lusso di andare contro corrente. Obbedisce alla verità, è mossa da un bisogno di verità perciò in questa misura incide, eccome, sulla società. Scrivere con onestà è un gesto politico.