Nonna portava sulle spalle, leggermente ricurve, uno scialle nero. Segnava il lutto della sua vita, ricordava a se stessa, giorno dopo giorno il dolore della perdita. Quel colore s’insinuava nelle parole che diceva, era compagno di preghiere e speranze, rifugio da piogge improvvise e folate di vento che chiudono gli occhi. Il ricordo di ciò che celava era, invece, conforto. Il conforto d’averlo quel ricordo, di avere la fortuna di possederne almeno uno.
Così mi diceva.
Ché in fondo non era uno soltanto.
Nonna aveva due dolori. Franco e Manrico. Nascosti dentro un unico respiro, uno accanto all’altro.
Il ricordo di suo marito era nato in una sera di primavera, in cui ogni cosa fiorisce. Il grottesco della vita aveva spento inesorabilmente il sorriso dell’uomo imponente prodigo di parole e consigli, canzoni e bevute. Nonno non s’era fatto piegare dalla mitraglia, non s’era ingobbito sui campi, che poco aveva frequentato, né s’era spezzato le ossa a tirar su muri di sostegno per nobili abitazioni e interi quartieri. Molti di questi oggi adornano il villaggio, e in certi frangenti immagino l’uomo dalla voce profonda con i muscoli tesi e la luce del sole che li accarezza, quasi con timore, senza scalfirli, quell’uomo fermo sulle gambe ben piantate, come piccoli pilastri di cemento a tenere in piedi la fatica di un’esistenza difficile.
Nonno morì col cuore spezzato, quel cuore, che a primavera s’apre alle sensazioni migliori, lasciò la sua voce riposare su un letto d’ospedale. Nonno morì con tanta vita in corpo da metter soggezione alla signora con la falce, mentre Manrico, zio Manrico, visse i suoi pochi anni con un carico di morte dentro da lasciar presagire come sarebbe andata a finire.
Io non c’ero allora, so della vicenda da frammenti di parole carpiti qua e là. Accenni di sguardo passati alla mia vista, racconti raccolti da semine altrui. Fuori dall’orto di casa. Adesso ne è trascorso di tempo. Adesso so, senza ben poter dire come e quando ho saputo. Ma so. So che lo ritrovarono appeso in soffitta. La voce delicata mozzata da una corda improvvisata fatta di stracci di vita, che lasciano il segno a vedersi. Lo trovò zio Giovanni, il fratello grande così simile a nonno d’averlo odiato nel profondo. Lo trovo lì, sospeso, con le scarpe sciolte e i lacci penzoloni ad uno sputo da terra. E soltanto un riassunto di vita sintetizzato su un biglietto stropicciato dalla calligrafia chiara, poche parole, “era giusto così”, parole scivolate sul pavimento grezzo che nonno non riuscì mai a completare. E nel momento in cui decise di andarsene senza chiedere permesso, in silenzio, con la paura di disturbare, come ogni volta che diceva parola a tavola, ecco, il giovane Manrico svanì nella voce della madre, che mai più volle pronunciare quel nome, per paura d’impazzire.
O di morire forse, anche lei.
Eppure quando i miei passi giunsero a calpestare la vecchia casa qualcosa era cambiato. Forse il dolore attenuato dai giorni, forse le nuove voci sovrapposte a far confusione, a tenere allegra l’aria, o forse la necessità intima di sopravvivere a se stessi portò nonna a pronunciare, seppur a filo di voce il nome del figlio che aveva scelto di voltarle le spalle senza chiedere permesso.
In fondo zio aveva lasciato ben più di un ricordo.
Una serie di parole raccolte, erano storie, raccontate a suo modo. Lontane un abisso da quelle di nonna, ma pur sempre storie.
Le scovai per caso una sera d’inverno.
Il freddo pungente non mi dava tregua, nonna aveva messo a bollire qualcosa, qualcosa dal profumo intenso che mal sopportavo. La cucina era satura, l’aria irrespirabile e il freddo mi serrava le caviglie.
La vecchia vicina, carica di solitudine e disprezzo sedeva solita con le gambe piegate e lo sguardo fisso alla trama del suo sapere. Cuciva da mattina a sera, e talvolta parlava. Il tono era deciso, secco. Pareva sputasse parole e invece erano sentenze cui nonna sorrideva per umana pietà. Non aveva mai osato tenere alla porta la megera, sola, abbandonata. Ecco, direi, avrebbe dovuto. E lo dicevo anche ad alta voce, che quella vecchia puzzava di rancore, tanto da prendere le sberle di mamma, strategica nel riuscire sempre a bloccarmi la fuga.
Quella sera però non poteva fermarmi, mamma non c’era.
Così andai per la mia strada, anch’io solo, ma senza il puzzo acido della vecchia che se ne stava seduta, intenta a rammendare con gli occhialini minuti e rotondi puntati sulle sue dita sgraziate e qualche dente pronto a cadere, dietro la prossima sentenza.
L’ultimo piano della casa era rimasto non finito.
Senza piastrelle a tracciare il pavimento né tunichina a colorare le pareti, tutto era grigio. E misterioso per un bimbo di otto anni che scorge avventure in ogni dove. Quel piano era la mia terra di conquista. Tra la polvere che imperversava e timidi squittii, uno strisciare stridulo d’aria e acqua e poi enormi armadi pieni di storie, e libri abbandonati dai figli che da tempo avevano già lasciato dietro le spalle il profumo di nonna.
Era il mio regno.
Segnavo il più innocente percorso tra la vecchia e rancida mobilia vinta dal tedio e organizzavo viaggi immaginari e battaglie sempre vincenti. Spedizioni alla ricerca di incredibili tesori.
C’erano libri sparsi ovunque, e muta indifferenza tra me e loro.
Ci scrutavamo diffidenti, l’un dell’altro. Niente avevamo in comune. Odiavo i due pesantissimi sussidiari che trascinavo ogni mattina a scuola, detestavo tutte quelle pagine.
Provai a vendicarmi della loro insolenza, del loro peso, provai a dar loro luce, fiamme e fuoco. Nonna mi fermò in tempo e a bruciare furono le mie guance per un bel po’. A quel tempo però rimanevo ormai indifferente. Non c’era più odio. Talvolta sbirciavo, ma subito dopo uno scricchiolio lontano, qualche anta cadente del grande stanzone, attirava le mie energie.
Così fuggivo via.
In una di queste sere a rincorrere, a scoprire me stesso oltre piccoli ostacoli che la quotidianità seminava lungo il cammino, finii per arrampicarmi sul grosso armadio centrale sventrato dalle tarme. L’interno era il mio covo. Era assurto a quartier generale. E non s’era per nulla opposto. C’erano morbide coperte e un profumo d’infanzia che non saprei dire. Bastava poco a spalancare le ante e ancor meno ad appisolarmici dentro. Spesso mi fermavo a qualche passo di distanza, con sguardo di sfida. Io così minuto e insignificante al suo cospetto, lui lì, saldo a terra, imponente.
Per molto tempo provai a conquistarne la vetta fino a quando quella sera d’inverno riuscii trionfante. Lo sforzo e l’euforia d’essere riuscito nel mio cimento più impegnativo mitigarono la delusione del bottino.
Polvere, polvere, polvere e l’ennesimo libro.
Piccolo, verde, odioso libro.
Il rancore e le poche energie rimaste mi spinsero ad allungare il braccio, a trascinare il tesoro fino a me e scagliarlo con rabbia per terra. Il movimento rapido e poco accorto mi sbilanciò, spedendomi giù insieme all’odiato libro. Il dolore fu lancinante, neppure il mio incipiente orgoglio riuscì a tirarmi su. Rimasi immobile, paralizzato, con l’angoscia d’esserlo rimasto davvero. Non saprei dire quanto tempo mi fermai disteso sul pavimento gelido. Ho sempre avuto la sensazione d’essere svenuto, ma non potrei dirlo con certezza. Fatto sta che dopo un’attesa interminabile nonna iniziò a lamentare il mio nome, lontano, fino a quando l’intensità della voce salì con lei fino al terzo piano.
Fino a me.
Mi trovò riverso per terra con lo sguardo stordito. Non esclamò nulla ma mi prese a sé e iniziò a carezzarmi. Sembrava d’essere in paradiso, pensavo che fosse così. L’odore caratteristico di nonna, un misto di burro e menta, mi faceva sempre riprendere e mi rimetteva in piedi.
Anche quella volta ci riuscì.
Seppur scricchiolante.
Mi chiese cosa ero riuscito a combinare stavolta, brontolai qualche parola incomprensibile a me stesso, e con il morale a terra e le ossa doloranti per l’inutile impresa feci alcuni passi verso la scala. Quando, d’improvviso, un sibilo di vento mi colpì al volto. Mi girai di scatto verso nonna che era arrossita come non mai, gli occhi, che fino ad un momento prima m’avevano salvato, adesso mi puntavano come un plotone d’esecuzione.
Urlò come mai prima d’allora avevo sentito.
Mi parve avesse un’altra voce. Ne ero certo, quella lì non era più la cara Agata. Probabile che la megera vicina di casa avesse messo su uno dei suoi terribili incantesimi. Eppure la donna che avevo davanti, la donna che m’aveva picchiato era nonna. E lo capii qualche istante dopo. Quando iniziò copiosamente a grondare lacrime. Confondendo saliva e parole raccolse il libro di cui già avevo perso memoria e con forza me lo sbatté sul capo. Poi a gesti, ché parole non era in grado di dire, capii che quel libro era terra di nessuno. Capii che mai avrei dovuto avvicinarmi. In quel momento capii che avevo scoperto il più grande tesoro possibile e che ogni mia energia sarebbe stata spesa per riappropriarmene, nonostante le sberle di nonna.
Riuscii a scovarlo nuovamente qualche giorno più tardi. Avevo messo a ferro e fuoco l’intera casa. Ogni anfratto. Come mai prima in vita mia, e così in seguito, ero stato sistematico in quella fibrillante ricerca. Spinto da un’energia che non sapevo spiegare, ma che mi rendeva infaticabile in quel curioso andare. Mamma si stupì della mia convinzione, decisa, particolarmente decisa, del voler a tutti i costi rimanere a pranzo da nonna subito dopo scuola, si stupì ma non indagò più di tanto.
Quello era compito mio.
Alla fine dopo due giornate di intense ricerche quel libro, che aveva tirato fuori l’animo furioso della placida Agata, era finalmente tra le mie dita paffute.
C’ero riuscito.
Con la fronte imperlinata da gocce di sudore m’ero piegato per l’ultima volta a cercare. Riposto con cura nel cassetto centrale del comò in camera di nonna, sotto lenzuola al profumo intenso di lavanda. Lo presi con estrema cura, lo aprii con una fame che mai avevo avvertito per i libri, con una voglia di divorarlo, di capire, di finire.
La prima pagina era ingiallita, quasi fosse stata stampata secoli prima, invece non era così. Quel libro tremante tra le mie mani non aveva che una decina d’anni. Stampato in una tipografia di Palermo, nascosto dalla polvere, segregato nel silenzio dell’ultimo piano, precipitato con me dolorosamente a terra, per gioco di destini era finito in mio possesso. Iniziai a sfogliarlo a casaccio, girando pagine su pagine, poi ritornai alla prima e consunta pagina. E rimasi tremendamente colpito dalle prime due parole che prima non avevo notato. Un nome seguito da un cognome, parole a me conosciute. Un nome rimasto incastonato nell’alone di mistero che allora lo avvolgeva. Le parole stampate sulla prima pagina in caratteri minuti dicevano: Manrico Sferruzza. Al centro con un carattere più ampio la parola Racconti.