La rubrica “Avanscoperta” ospita oggi Lidia Tilotta che racconta del suo ultimo libro “Karibù. Lo Zambia, una donna, una grande avventura” scritto insieme a Cristina Fazzi per Infinito Edizioni. (€ 16,00 – pp. 160).
Mettersi dalla parte dell’altro. Essere la voce dell’altro. È la sintesi di una scelta cominciata nel 2016 con “Lacrime di Sale” e che prosegue oggi con “Karìbu”.
Scomparire nella scrittura per dare forza, corpo e spazio assoluto ai protagonisti. Protagonisti dalle storie a tratti incredibili ma vere, nel senso più puro del termine.
Creare strumenti per raccontare, per far comprendere, per innescare un confronto non virtuale ma fisico, fatto di sguardi, gesti, condivisione di emozioni e anche di indignazione.
In “Lacrime di Sale” con Pietro Bartolo abbiamo raccontato la sua storia di medico di Lampedusa che ha soccorso migliaia di persone arrivate sull’isola per cercare una vita degna di questo nome. Volevamo dare voce alle storie di uomini, donne e bambini che voce non hanno.
Quel libro è diventato il mezzo per squarciare muri fatti di propaganda, discorsi d’odio e false notizie. Per incontrare giovani e meno giovani in giro per l’Italia e sentirsi dire, sempre, “non pensavamo che fosse cosi”.
Karìbu è la naturale prosecuzione di quel percorso. Stavolta a raccontare in prima persona la sua straordinaria vita è Cristina Fazzi, medico di Enna che da 22 anni vive in Zambia.
Una donna che ha ribaltato il concetto di “aiutiamoli a casa loro” perché, ad esempio, insegna alle mamme a coltivare il cibo che serve a nutrire i propri figli. Perché fornisce strumenti, non beni preconfezionati. Perché lavora con chi in quel posto ci vive e non è arrivata a calare dall’alto saperi e conoscenze. Una donna che da single si è battuta in Italia per tre lunghi anni per avere riconosciuta l’adozione zambiana di suo figlio Joseph. Una donna che di figli non adottabili a casa ne ha altri sette, ognuno nato da un incontro spesso doloroso. Cristina è madre. Lo è pienamente. E’ donna passionale e determinata e il racconto dei suoi ventidue anni zambiani è denso. Fatto di momenti difficili in una foresta che sa essere tanto struggente quanto piena di pericoli. Fatto di rabbia maturata nelle baraccopoli, “non luoghi” dove i bambini raccolgono dai rivoli fangosi l’acqua piovana mista ai liquami. “Sono partita per caso ma sono rimasta per aver detto troppe volte non è giusto” dice Cristina. Lei che continua a vedere i bambini morire di fame, lei che si batte perché le mamme non muoiano di parto continuamente. La sua energia e la sua tenacia sono contagiose e travolgenti.
Anche Karìbu è uno strumento. Per raccontare, ancora una volta, nelle scuole e in tutti i luoghi possibili cosa c’è oltre le nostre “bolle”. Raccontare, parlare, incontrare, è molto più faticoso che chattare, digitare, comunicare a distanza sui social media. L’effetto, però, è meraviglioso. E’ come riuscire ad aprire a mani nude una barriera fatta di pietre e malta fino a sfondarla. Sono occhi che guardano occhi. Volti che si interrogano, si emozionano, escono dalla bolla.
Karìbu, nella lingua bemba, la più parlata in Zambia, vuol dire benvenuto. Benvenuti in tante cose ma soprattutto nell’idea. Quella che da utopica può diventare reale. L’idea che i diritti umani e civili debbano essere difesi sempre. L’dea che non esistono esseri umani di serie A e di serie B ma solo persone che hanno diritto alle stesse opportunità di vita.
Ho scelto di essere la voce dell’altro, di mettere la mia scrittura al servizio di storie che vanno narrate perché ci raccontano un’altra storia. Storie che da particolari diventano universali. Che ci consegnano una “contronarrazione” e ci permettono di allargare i nostri orizzonti, di guardare cosa c’è oltre il nostro vissuto quotidiano.
Non è affatto semplice ma è, oggi più che mai, urgente e necessario.
“Ho visto bambini che per riempire lo stomaco hanno mangiato pietre, insetti, larve. Ho visto e continuo a vedere la fame, quella vera. Per questo non sopporto quando diciamo senza pensarci: “Sto morendo di fame”. Il fatto che in Zambia ci siano tanti, troppi bambini che soffrono la fame, e che per questo possono arrivare alla morte, mi ha sempre impressionato”.
“…Un’altra volta andai a visitare una mia piccola paziente disabile. La notte precedente aveva piovuto tanto e la melma del fango misto ai liquami nauseabondi invadeva le “non-strade” che collegavano gli ammassi di casupole. C’era una grandissima fila di bambini con in mano bacinelle, bottiglie e contenitori di ogni genere. Mi incuriosii e andai a vedere cosa aspettassero quei bimbi in coda.
C’era un solco dentro cui scorrevano acqua piovana e di fogna a cielo aperto insieme. Un miscuglio marrone. I bambini la stavano raccogliendo, la ripulivano dai detriti, delle erbacce, dai tappi di bottiglia e da tutti gli scarti possibili e immaginabili e, una volta ‘depurata’, la versavano nelle bacinelle per poi portarla a casa e utilizzarla.
In una baraccopoli priva d’acqua corrente, nella quale non esiste un sistema fognario e non ci sono sorgenti, anche l’acqua piovana lurida che scorre a terra serve per cucinare e per lavarsi. È una scena che si ripete puntuale a ogni pioggia e anche se l’ho vista tante e tante volte, non riesco mai a farci l’abitudine.”