– Vito Teti, 2022 – Einaudi – pp. 168 – € 13,00.
Viaggio antropologico che declina il cammino e il ritorno, ma ancor di più l’atto del rimanere. In un testo d’enorme fascino l’autore esplora le diverse connotazioni della “restanza”, non – come trito luogo comune – passivamente nel paese di provincia, spesso natio, o nelle periferie, ma in prospettiva, uno sguardo che vira oltre la siepe di leopardiana memoria e scorge possibilità da realizzare, non soltanto in maniera ideale e sognante, ma concreta, affinché ciò che è stato non si perda, ma evolva. La “restanza”: «è il sentimento di chi àncora il suo corpo ad un luogo e fa diaspora con la mente.» – e ancora – «Il termine indica la scelta di restare vissuta non piú come immobilismo e rinuncia, ma come un modo di opporsi allo svuotamento dei paesi, alle difficoltà delle aree interne, al vuoto delle montagne e, per tanti versi, al vuoto delle periferie controbilanciando la forza inerziale del fatalismo con la capacità di guardare e riconsiderare il passato secondo inedite prospettive di riscrittura del presente, di guardare il centro dalla periferia, di partire dai margini, dai luoghi apparentemente persi alla vita.»
Appunti sparsi:
«Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo.»
«Sulla superficie instabile del nostro pianeta, tra incessanti mutamenti climatici, migrare è da sempre un fattore di cambiamento e adattamento. La mobilità di una specie evolve nella capacità di migrare per fuggire, sopravvivere, trovare risorse e riparo per i figli.»
«L’attesa spesso è sofferenza, ma è anche speranza, pazienza, capacità di ripensare e di rinnovare l’esistenza. L’attesa è attenzione.»
«Non si resta del tutto, non si parte mai del tutto. La vita è sempre altrove.»
«Il luogo antropologico è tale in quanto abitato, umanizzato, riconosciuto, periodicamente rifondato, dalle persone che se ne sentono parte. Il luogo è costruzione culturale composta con le immagini che abbiamo ereditato; è condivisione, con chi ci vive, con chi ci torna, con chi lo ha abbandonato per sempre.»
«Un luogo è un insieme di relazioni, di legami magari controversi e mutevoli, eppure indispensabili.»
«L’invasione dei beni di consumo di massa ha prodotto forme di marginalità sapienziale sulla maniera di produrli, ha separato l’economia dalla fatica, dall’etica di un sistema di principî e di doveri della memoria.»
«Goffredo Parise (1974) scriveva: “Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi”.[…] “Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione. Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno piú distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi”.».
«Si disegna una nuova geografia del dolore e della solitudine perché non si assiste alla fine di questo o quel paese, ma alla chiusura di un mondo e allo stravolgimento irreversibile di paesaggi, di economie, di culture, di sistemi ecologici, di microcosmi che hanno tracciato il periplo socio-culturale e la storia del Mediterraneo.»
«Un paese – ma in maniera diversa una città, una periferia –, è bene ribadirlo, non è un groviglio casuale di abitazioni, al contrario, un paese è un artefatto complesso di architetture, di strade, vicoli, case; una trama di relazioni, vissuti e pratiche sociali interrelate; un luogo antropologico per eccellenza, con una sua dimensione orizzontale e verticale, dove gli abitanti convivono con i loro santi protettori, i loro defunti, le loro memorie.»
«I paesi non si rigenerano con gli slogan, con proposte estemporanee che seducono per fascinazione. Non basta ristrutturare qualche casa per invertire dinamiche di infragilimento umano e di rarefazione dei servizi di prossimità spesso oltre la soglia dell’irrimediabilità. Le soluzioni “facili” aiutano poco ed oscurano la complessità del riabitare possibile dei paesi. Riabitare significa ricostruire comunità, creare le condizioni essenziali per consentire di rimanere a chi vuol restare, per favorire il ritorno di chi vuole tornare, per accogliere chi ha maturato la scelta della vita da paese. Ristrutturare e recuperare immobili è solo un tassello della rigenerazione. A volte, in pochi casi, diventa possibile, ma occorre distinguere la nascita di una nuova comunità da quella di un villaggio turistico aperto solo d’estate.»
«Senza un’offerta adeguata di servizi di cittadinanza essenziali – la scuola, la farmacia, i trasporti locali, la connessione a internet, un presidio sanitario di prossimità – il ritorno in “vita” di qualche casa non sarà sufficiente per consentire un’esistenza dignitosa ai residenti e per contrastare il declino.»
«“Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare”, scriveva Hannah Arendt.»
«Oggi arriva il silenzio senza colore. Il balcone si affaccia sulla ruga, dentro il paese, sul pieno di un tempo e sul vuoto di oggi. Anche se tutto è cambiato, tutto è riconoscibile ed in questa persistenza si consumano il paradosso e lo stigma del disfacimento. Le strade sono vacanti, assenti i rumori della campagna, le voci delle persone che si chiamavano a distanza, quelle delle fontane, delle fiumare che parlavano – incautamente zittite dalla nostra distrazione – ma tutto ciò non ha fatto finire il mondo. Il sole e le albe, le ombre e le notti, sono tornate in questi giorni e torneranno quando io non guarderò piú dal mio balcone.»
«Restando fermo ho camminato migliaia di giorni, camminando mi sono sentito fermo; da fermo ho attraversato dimensioni spazio-temporali; camminando ho incontrato vivi e defunti. Ogni giro lungo, ogni desiderio di fuga mi ha riportato a casa da dove non sono mai andato via. Ho viaggiato con il corpo, con le idee, con i racconti degli altri, con i libri, con lo studio, con le nuvole, con le nebbie, con il mio vento. Infinite volte mi sono sentito straniero, in esilio, nella mia casa.»
«Anche i viaggi fantastici, immaginari, sognati, inventati narrano di nostalgia dell’altrove, di altri mondi, di una nuova vita. Il nostalgico è dunque colui che ha deciso di mettersi in viaggio e di acquisire consapevolezza – lentamente, dolorosamente – della impossibile ed impensabile reversibilità nel tempo, che finisce col diventare anche irreversibilità nello spazio.»
«La nostalgia dell’altrove riguarda anche chi è rimasto e assiste alla fine del mondo in cui è nato, alle trasformazioni cosí forti e inattese da farlo sentire straniero in patria. Chi ha visto partire familiari e amici, chiudere case, morire persone si sente in qualche modo custode del paese in cui è rimasto, conserva memorie del mondo che scompare, vive l’amarezza di un duplice scacco della nostalgia. Ha desiderio dell’altrove senza essere mai partito.»
«Egli è il melanconico abitatore di un mondo da cui non si è mosso, e il nostalgico sognatore di un mondo che non conosce.»
«Se non dovessi tornare, | sappiate che non sono mai | partito. | Il mio viaggiare | è stato tutto un restare | qua, dove non fui mai». (Giorgio Caproni)
«Siamo tutti altrove. Siamo tutti esuli. In esilio da un tempo che piú non ci appartiene, da luoghi che ci sono stati sottratti o da cui ci siamo allontanati.»
«Pensare estranea, rende stranieri.»
«Socrate era un estraneo nella sua città, Atene. Sollevava continuamente domande. Metteva in discussione ogni cosa. Era inopportuno. Irritava. La sua estraneità, però, era ciò che gli consentiva di vedere al di là della città, ciò che c’era oltre.»
«“Camminare” anche per coloro che sono rimasti – e che spesso vivono da fermi – è un esercizio di verità cosí come in passato lo era stato per coloro che avevano scelto come sito in cui abitare luoghi lontani e avevano visto nello spostamento, nella migrazione, la scoperta, la salvezza, la terapia. La concezione salvifica del viaggiare e del camminare è presente in tutte le religioni. »
«[…] una nostalgia struggente che fonda nuova identità, senso di appartenenza, richiamo delle origini capace di creare arte e musica; si approda alla percezione che la nostalgia sa trasformare il dolore e la pena del mondo di origine in forza e grazia salvifica. Forse la nostalgia è davvero la natura dell’uomo che è condannato ad essa sia quando parte sia quando resta, e forse il cammino, esteriore e interiore, si presenta come una via per cercare altre forme di abitare e di guardare il pianeta.»
«La lingua, la vita si salvano dalle macerie quando si rispecchiano in – e al contempo rispecchiano – ciò che è perduto.»
«Ernesto De Martino: il mondo sta mutando o è mutato, non è piú il mondo domestico addomesticabile, qualche cosa di assolutamente nuovo sta per accadere o è già accaduto, e non già nel senso normale che il mondo muta nel tempo, e noi con esso, ma nel senso che ora il mutamento sta nell’esperire la stessa mondanità che volge alla fine, e che diventa “altra” proprio come mondanità, quindi “radicalmente altra”».
«Non si resta o si fugge: si resta e si fugge.»