– Han, Byung-chul, 2022 – Einaudi – pp. 88 – € 10,00.
«Il dolore è un’esperienza fondamentale dell’essere umano, ma cosa succederebbe se scomparisse del tutto dalla società? »
Il filosofo e sociologo Han si pone questa domanda in modo provocatorio.
Passando in rassegna, criticamente, la società contemporanea e i suoi modelli comportamentali, Han asserisce quanto la cultura dell’abbondanza e del consumo abbia portato alla negazione del
dolore – che appare sempre più come un tabù da eludere o ignorare – e alla ricerca costante del piacere e del benessere. A suo parere tale ricerca del piacere si rivela illusoria e priva di senso, poiché il dolore e la sofferenza sono parte integrante della vita umana e della nostra crescita personale.
Il filosofo invita a riflettere sull’importanza del dolore come strumento di crescita e di consapevolezza di noi stessi e del mondo circostante e analizza anche le conseguenze concrete della negazione del dolore nella società contemporanea, dalle dipendenze alle malattie psicologiche.
Il testo è un’amara riflessione sulla condizione umana in una società in cui la negazione del dolore e la ricerca spasmodica del piacere si sono impadronite delle coscienze.
Appunti –
«Solo un’ideologia del benessere permanente può far sí che farmaci originariamente utilizzati nella medicina palliativa vengano impiegati in grande stile anche su persone sane.»
«La società palliativa coincide con la società della prestazione. Il dolore viene interpretato come un segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione. Esso
non è compatibile con la performance. La passività della sofferenza non ha alcun posto nella società attiva dominata dal poter fare. Oggi il dolore viene privato di qualsiasi possibilità di espressione: viene condannato a tacere. La società palliativa non permette di animare, verbalizzare il dolore facendone una passione.»
«La società palliativa è inoltre una società del mi piace, che cade vittima della mania di voler piacere. Ogni cosa viene lucidata finché non suscita approvazione. Il like è l’emblema, il vero e proprio analgesico della contemporaneità. Non domina solo i social media, ma anche tutti gli ambiti della cultura. Nulla deve piú far male.»
«Non solo l’arte, ma anche la vita stessa dev’essere instagrammabile, ovvero priva di angoli e spigoli, di conflitti e contraddizioni che potrebbero provocare dolore. Ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico. Alla cultura della compiacenza manca la possibilità della catarsi. Per cui si soffoca tra le scorie della positività che vanno accumulandosi sotto la superficie della cultura della compiacenza.»
«La cultura della compiacenza ha svariate origini. Rimanda prima di tutto all’economicizzazione e alla mercificazione della cultura. I prodotti culturali finiscono in maniera sempre piú pronunciata sotto l’influsso della coazione al consumo. Devono assumere una forma che li renda consumabili, cioè compiacenti. Tale economicizzazione della cultura collima con la culturalizzazione dell’economia. I beni di consumo vengono dotati di un valore aggiunto culturale. Promettono esperienze culturali, estetiche.»
«L’ambito del consumo invade quello artistico. I beni di consumo si presentano come opere d’arte. In tal modo l’ambito artistico e quello di consumo si mischiano, con la conseguenza che ora l’arte serve a sua volta l’estetica del consumo. Diventa compiacente.»
«Si abbatte cosí la separazione tra cultura e commercio, tra arte e consumo, tra arte e pubblicità. Gli stessi artisti vengono messi sotto pressione affinché s’impongano come marchi. Diventano conformi al mercato, compiacenti.»
«Finché l’ambito artistico, nettamente separato da quello del consumo, seguiva una propria logica, non ci si attendeva alcuna compiacenza. Gli artisti si tenevano alla larga dal commercio. Il motto di Adorno, secondo cui l’arte è “estraneità al mondo”, aveva ancora validità. Ne segue che l’arte che fa star bene è una contraddizione in termini. L’arte deve sconcertare, disturbare, inquietare, anche saper far male.»
«È da qualche altra parte. È a casa nell’estraneo. È proprio l’estraneità a caratterizzare l’aura dell’opera d’arte. Il dolore è lo strappo attraverso il quale fa breccia il completamente Altro.»
«È proprio la negatività del completamente Altro a mettere l’arte in condizione di offrire una narrazione antagonistica rispetto all’ordine vigente. La compiacenza, invece, perpetua l’Uguale.»
«La coscienza che non riesce a rabbrividire è reificata. È incapa ce di fare esperienza […] Anche la vita che rifiuta qualsiasi dolore è reificata.»
«Solo “l’essere toccato dall’altro” mantiene viva la vita. Altrimenti essa resta prigioniera nell’inferno dell’Uguale.»
«In un manifesto futurista di Aldo Palazzeschi intitolato Il controdolore si legge: “Maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, piú egli sarà un uomo profondo. Non si può intimamente ridere se non dopo aver fatto un lavoro di scavo nel dolore umano”»
«Nella società della prestazione neoliberista, negatività come gli obblighi, i divieti o le punizioni cedono il passo a positività come la motivazione, l’auto-ottimizzazione o l’autorealizzazione. Gli spazi disciplinari vengono sostituiti da aree di benessere. Il dolore perde qualsiasi appiglio col potere e il dominio. Viene depoliticizzato, diventando una questione medica.»
«La nuova formula di dominio recita: Sii felice. La positività della contentezza scaccia la negatività del dolore. In forma di capitale emotivo positivo, la felicità deve garantire un’ininterrotta capacità di prestazione.»
«Il subordinato non è nemmeno consapevole della propria subordinazione. Crede di essere libero. Senza alcuna costrizione esterna, si sfrutta volontariamente credendo di realizzarsi. La libertà non viene oppressa, bensí sfruttata. Il Sii libero crea una costrizione piú disastrosa del Sii obbediente.»
«La comunicazione totale e la sorveglianza totale, il denudamento pornografico e la sorveglianza panottica finiscono per collimare. La libertà e la sorveglianza diventano indistinguibili.»
«Il dispositivo neoliberista della felicità ci distrae dai rapporti di dominio vigenti costringendoci all’introspezione.»
«Fa sí che ognuno si tenga occupato solo con sé stesso, con la propria psiche, invece di indagare criticamente le questioni sociali. La sofferenza, della quale sarebbe responsabile la società, viene privatizzata e psicologizzata. Le condizioni da migliorare non sono sociali, bensí psichiche. Lo slancio verso un’ottimizzazione dell’anima, che in realtà costringe a un adeguamento ai rapporti
di dominio, vela i malcostumi sociali. Cosí la psicologia positiva sigilla la fine della rivoluzione.»
«A salire sul palco non sono i rivoluzionari, bensí i trainer motivazionali che impediscono il diffondersi del malumore o anche della rabbia.»
«L’assoluta medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore impediscono che esso si faccia linguaggio, anzi critica. Sottrae al dolore il suo carattere oggettivo, sociale. Mediante un’anestesia indotta per via medicamentosa o mediale, la società si rende immune alla critica. Anche i social media e i videogiochi fungono da anestetici. L’anestesia permanente della società impedisce la scoperta e la riflessione, opprime la verità.»
«Il dispositivo della felicità isola l’essere umano e conduce a una spoliticizzazione e desolidarizzazione della società.»
«Cosí, invece della rivoluzione, c’è la depressione. Mentre cerchiamo di sistemare alla meno peggio la nostra anima, perdiamo di vista le questioni legate alla società, il che provoca fratture sociali. Se siamo tormentati da paure e insicurezze, ecco che colpevolizziamo non la società, bensí noi stessi. Il fermento della rivoluzione è però il dolore percepito insieme. Il dispositivo neoliberista della felicità lo soffoca sul nascere. La società palliativa spoliticizza il dolore medicalizzandolo e privatizzandolo. In tal modo si opprime e si rimuove la dimensione sociale del dolore.»
«La vera felicità è possibile solo se infranta. È proprio il dolore a salvaguardare la felicità dalla reificazione[…] Inoltre, le conferisce una durata. Il dolore regge la felicità. La felicità dolorosa non è un ossimoro. Ogni intensità è dolorosa. La passione unisce il dolore e la felicità. La profonda felicità contiene un attimo di sofferenza. L’infelicità e la felicità sono, secondo Nietzsche, “due sorelle, e gemelle, che diventano grandi insieme o […] restano piccole insieme”. Se il dolore viene soffocato, ecco che la felicità si appiattisce riducendosi a un apatico torpore. La profonda felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore.»
«La vita viene spogliata di qualsiasi narrazione capace di generare senso: non è piú ciò che si può raccontare, bensí ciò che si può misurare e conteggiare. La vita diventa nuda, oscena. Nulla promette durata.»
«La società dominata dall’isteria della sopravvivenza è una società di non morti. Siamo troppo vivi per morire e troppo morti per vivere.»
«Oggi viviamo in un’epoca post-narrativa. Non è il racconto, bensí il conteggio a influenzare la nostra vita. La narrazione è la capacità dello spirito di superare la contingenza del corpo. Quindi l’idea di Benjamin che il racconto possa guarire qualsiasi malattia non è poi cosí assurda. Anche gli sciamani scacciano la malattia e il dolore mediante evocazioni magiche aventi un carattere narrativo.»
«Tutto ciò che è vero è doloroso.»
«Senza dolore non abbiamo né amato né vissuto.»
«La digitalizzazione è anestesia.»
«Nell’epoca post-fattuale, con le fake news o i deep fake nasce un’apatia nei confronti della realtà, anzi un’anestesia della realtà.»
«Il dolore acuisce la percezione di sé. Esso contorna il sé. Disegna i suoi contorni.»
«In una società anestetizzata occorrono stimoli sempre piú forti perché si abbia il senso d’esser vivi. La droga, la violenza e l’orrore diventano degli stimolanti che, in dosi sempre piú potenti, riescono ancora a suscitare un’esperienza dell’Io»
«Malgrado mi amareggi il fatto di dover patire dolori fisici cosí insopportabili, divenuti soprattutto negli ultimi mesi inesorabili accompagnatori delle mie ambasce, io m’aggrappo a questi miei dolori e detesto il sol pensiero che possano andarsene.»
«Oggi non abbiamo piú la volontà di esporci al dolore. Il dolore però è una levatrice del Nuovo, un’ostetrica del completamente Altro. La negatività del dolore interrompe l’Uguale.»
«Nella società palliativa come inferno dell’Uguale non è possibile alcuna lingua del dolore, alcuna poetica del dolore. Essa permette solo la prosa della compiacenza, cioè la scrittura alla luce del sole.»
«Il dolore è vita […] Senza dolore non è possibile alcuna conoscenza capace di rompere radicalmente col passato. Anche l’esperienza nel senso enfatico del termine presuppone la negatività del dolore. È un doloroso processo di trasformazione. Contiene una fase di patimento o sopportazione. In questo si distingue dall’evento, che non conduce ad alcun cambio di stato poiché diverte invece di trasformare. Solo il dolore produce un reale cambiamento.»
«Solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare […] noi dobbiamo generare costantemente i nostri pensieri dal nostro dolore e maternamente provvederli di tutto quel che abbiamo in noi di sangue, cuore, fuoco, piacere, passione, tormento, coscienza, destino, fatalità.»
«E per quanto riguarda la mia lunga infermità, non le devo infinitamente di piú che alla mia salute? Le devo una superiore salute, una salute che da tutto ciò che non la uccide è resa piú forte!»
«Sennonché quanto piú gioiosa è la gioia, tanto piú pura è la tristezza che in essa si nasconde. Quanto piú profonda la tristezza, tanto piú forte la gioia, che è in essa, fa udire il suo richiamo. Tristezza e gioia si intrecciano. Il gioco che accorda l’una all’altra, avvicinando ciò che è lontano e allontanando ciò che è vicino, è il dolore. Per questo entrambe, la gioia piú alta e la tristezza piú profonda, sono, ciascuna a modo proprio, dolorose.»
«I media digitali non sono media disciplinari. Oggi non viviamo nella società disciplinare, bensí in quella del consumo, che rende ogni cosa consumabile. Persino nei confronti delle immagini di violenza abbiamo una relazione pornografica. Coi film e i videogiochi ci dedichiamo letteralmente al porno della violenza, che rende addirittura l’atto di uccidere una circostanza priva di dolore. Le immagini di violenza pornografiche sortiscono l’effetto di un analgesico. Ci rendono insensibili nei confronti del dolore altrui.»
«l’eccesso d’immagini di dolore e violenza nei mass media e in rete ci costringe alla passività e all’indifferenza tipiche dello spettatore che tace. La loro massa è tale che non riusciamo a elaborarle cognitivamente. S’impongono alla percezione. Da esse non emana piú quell’imperativo morale cui tiene fede Susan Sontag: “L’immagine dice: ponigli fine, intervieni, agisci”»
«La crescente perdita di empatia rimanda al fatto, carico di conseguenze, che l’Altro sta scomparendo. La società palliativa sconfigge l’Altro in veste di dolore.»
«Oggi siamo dominati, intontiti, inebriati dall’ego. L’ego narcisistico che va rafforzandosi incontra soprattutto sé stesso nell’Altro. Anche i media digitali favoriscono la scomparsa dell’Altro. Riducono la resistenza dell’Altro rendendolo disponibile. Riusciamo sempre meno a percepire l’Altro nella sua alterità. Se ne viene spogliato, ecco che l’Altro si lascia solo consumare.»
«Ho amato le persone per la cui vita sono stato in angoscia.»
«Oggi il capitalismo si sviluppa diventando un capitalismo della sorveglianza. La sorveglianza genera capitale. Siamo continuamente sorvegliati e influenzati dalle piattaforme digitali. I nostri pensieri, sentimenti e obiettivi vengono selezionati e sfruttati. L’Internet delle cose estende la sorveglianza alla vita reale.»