Nonna aveva di che parlare. S’accompagnava a perline nere, legate dallo spago sottile di una preghiera. Parole sussurrate, sospese sulle labbra, pronunciate a fil di fiato, per non far rumore, “Perché Dio” – diceva “non ha bisogno di nessuno che alzi la voce, nessuno che strepiti. Dio ascolta le parole che abbiamo nel cuore, non è necessario che io le dica, Lui sa. Prego sussurrando per ricordare a me stessa quello che ho dentro, per sentirlo più vicino, reale, come se in qualche modo possa accompagnarmi. E non credermi pazza bambino mio, non lo sono”. Pregava, rammendava i miei vestiti testimoni di ruzzoloni, lotte e quotidiane guerre senza vittime, se non qualche lembo di pelle venuto via, lasciato sul selciato, e presto risorto tra lacrime mute, figlie di un orgoglio guerriero. Nonna pregava, rammendava e farciva dei biscotti da restarci secchi, gusti e fragranze che non ho mai più accarezzato con le labbra, dolci come il suono delle storie che consolavano i miei pomeriggi di reclusione, pomeriggi in cui il cielo aveva il suo bel da fare a muovere con impeto nuvole e pioggia, mentre il vento arrogante spazzava la strada da polvere e respiri. Erano pomeriggi d’inverno, cupi, chiusi nel gelo che colora la città, riempie i pensieri e spegne le voci intorno. “Pomeriggi sparpaglia marmaglia”, diceva mia nonna, e li amava perché svuotavano il cortile del clamore di parole dette senza pensare, imprecazioni ad inseguire un pallone e bestemmie troppo innocenti per essere punite. Nonna adorava la pioggia e il crepuscolo del giorno, forse perché sentiva se stessa esserne parte. Teneva la brace a scaldare i piedi e una piccola pala di ferro di cui ero custode, attizzava la fiamma e generava calore. Vedevo me stesso come un novello Prometeo, signore del fuoco, che accarezza e consola. E i miei occhi scintillanti si ravvivavano nel rimestare, mentre nonna raccomandava di non esagerare “perché alcuni colori sono tanto violenti da non poter essere sopportati”, diceva. E in una di quelle occasioni mi narrò la storia della “stanza senza luce”, una vicenda che allora non riuscivo bene a comprendere, perché nonna non spiegava mai, le bastava raccontare. “In ogni racconto non c’è nulla di oscuro, tutto sta lì, mostrato, denudato dalle parole, chiaro.”
E così iniziava.
“C’era una volta, in un paese lontano, un bambino dai riccioli d’oro. Il luogo era triste, senza spazi da poter esplorare, né strade da scoprire o regni da conquistare, né altre voci bambine da potere seguire, tutte annientate dall’orco intelligente, chiamato progresso, guidato da uomini che tengono il futuro sul palmo delle mani, e senza ritegno stritolano quelle innocenti di chi adulto non è. Il superstite, così battezzato, viveva in una stanza ricca di giochi, e profumi e colori, e pupazzi d’ogni sorta e misura, a forma d’albero, d’areostato, di galline dalle piume dorate, conchiglie a due zampe e libri parlanti, e c’erano lupi belanti e faine pronte a soccorrere prede, e vittime ignare che avevano il ruolo di divertire. Piccoli rodei, colossei allestiti alla bisogna per tener viva l’attenzione del bimbo, così che potesse, in qualche modo, accompagnarsi a quella particolare solitudine. E c’erano anche strumenti musicali, di dimensioni ridotte, pronti a suonare a comando, e poi sfere fluttuanti nell’aria che facevano il verso al cielo stellato, senza alcuna morale. Lì il bambino dai riccioli d’oro trascorreva le giornate a giocare, leggere, e col passare del tempo iniziò anche a scrivere. A raccontare, a trascrivere gli immaginari dialoghi che intratteneva con gli oggetti che adornavano la stanza. Come se in quel semplice gesto della scrittura potesse conservare la memoria delle cose, delle sensazioni, delle stesse sue parole pronunciate per avviare ogni gioco, parole che fissate sulla pergamena erano memoria reale di quella stanza, regno di solitudine senza sudditi. E c’erano oggetti particolari dentro, come ho detto, tutti i colori del mondo racchiusi in pochi metri, alcuni dipinti con sfumature tanto forti da non poter esser fissati a lungo. Gli anni passavano tra giochi e battaglie simulate da eserciti rombanti, ce n’erano a bizzeffe, sì caro mio. Corazzate di metallo, minute e rapide s’alternavano nella conquista di porzioni di pavimento. Molto ambita era la stuoia, perché vicina al bimbo dai riccioli d’oro. I condottieri valorosi volevano stargli accanto, sentirlo parlare quando anche lui raccontava delle storie con quella voce soave che avrebbe incantato il mondo intero, se soltanto il mondo intero avesse potuta ascoltarla. Perché il bimbo dai riccioli d’oro sapeva cantare, figliolo, e cantava spesso frammenti di melodie accompagnato dall’orchestra immaginaria. Eppure la fatica di scorgere certe figure dai colori sgargianti creava insofferenza a quel piccolo re senza corona. Li rifuggiva, provava a nasconderli, ma alla fine ogni tentativo era vano. La mente ritornava sempre lì, e avendoli presenti nel pensiero sapeva bene di rivederli e gli occhi dolevano, come ad averli dinnanzi a lui, lì, reali, sgargianti e pungenti. Nonostante tutto non cercò mai di distruggerli, era consapevole, sebbene piccino, che provando a farlo avrebbe ucciso gran parte di sé, e di quel mondo fatato che lo accompagnava lungo le giornate, perché strenuo era il suo legame alla vita. Dunque sì adoperò per risolvere il problema, in primo luogo non avrebbe dovuto ricordare, ricordarli, vederli con gli occhi della mente, che tanto dolore gli procurava, considerò poi che nasconderli non avrebbe di certo risolto la questione. Li riprese dagli anfratti in cui erano stati riposti, osservato con fare curioso dalle schiere di soldati, e musicisti e alberi lamentosi i cui rami salivano fino al cielo a far ombra, e li rimise nella loro collocazione visibile, sulle mensole, sul comò che tanto gli piaceva perché carico di libri e storie amiche, sulla poltroncina morbida della fragranza delle rose che l’abbracciava nelle notti di tempesta e che veniva sempre contesa dalle donne dei generali d’armata. Così ridisposti come in origine, quei dolorosi oggetti, provò a puntar contro il suo sguardo ceruleo, provò e riprovò, ma ogni tentativo era stancante e improduttivo. Decise allora di ricorrere ad uno stratagemma, spense le lampade che a decine irradiavano la stanza, e si precipitò in un oscurità consapevole. Decise di non vedere ciò che era palese, denudato dalla banalità della luce, decise di scegliere. Dal tono delle cose le cose stesse, e non dalla loro apparenza. Forse in quell’istante smise d’esser bambino e diventò qualcosa di più. Con occhi brillanti camminò a tentoni nelle strade del piccolo regno. E come un funambolo sulla corda tesa della follia visse in una sorta di luminosa notte, trovando col tempo un equilibrio che né la luce accecante delle lampade né i colori sgargianti dei suo compagni di giochi erano mai riusciti a dargli.