Per questo appuntamento la rubrica “Cinque domande, uno stile” ospita Lidia Tilotta. Giornalista della RAI e autrice per il rotocalco di frontiera “Mediterraneo“, coautrice, insieme al medico Pietro Bartolo, del fortunatissimo “Lacrime di sale” (2016, Mondadori) in cui si racconta la comune odissea di donne, bambini, e uomini in cerca di speranza.
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
È una sensazione bellissima. Vedere l’idea diventare parola scritta, riuscire a entrare dentro una storia, renderla viva, fa crescere un’emozione straordinaria. Immagini tutto, le voci, i colori, gli scenari, tutto acquista una forma reale e ti trascina dentro in un fluire di parole che diventa sempre più inarrestabile. E quando finisci ogni singolo capitolo, ti senti spossato, come se tutta la tua energia si fosse trasferita in quella pagina che fino a pochi minuti prima era totalmente bianca.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Direi che è entrambe le cose. È come fissare per sempre un racconto che altrimenti resta etereo e, bene che vada, patrimonio di chi quel racconto lo vive. Scriverlo vuol dire consegnarlo a chi vuole conoscerlo. Renderlo disponibile per tutti. La parola scritta diventa lo strumento per far sì che storie individuali possano diventare patrimonio collettivo.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”
In realtà ho sempre vissuto il desiderio della scrittura. Un piccolo racconto pubblicato, tanti incipit nel cassetto. Ma il vero momento decisivo è stato il 2014 quando, nel poliambulatorio di Lampedusa, chiesi con forza a Pietro Bartolo di raccontare insieme le storie di chi scappava da guerra e fame e che lui aveva ascoltato per anni nel molo Favaloro. Glielo chiesi dopo avergli sentito descrivere con tutto il dolore possibile le foto del naufragio del 3 ottobre del 2013 che erano nel frattempo state raccolte in una splendida mostra fotografica. In quell’istante esatto ho capito che avrei lottato con ogni mezzo per convincere Bartolo.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Periodi e lessico semplici, prevalenza delle descrizioni sui dialoghi. Uno stile asciutto è quello che preferisco ma non è detto che debba rimanere un vincolo. Dipende dalla storia che si vuole narrare. Al momento è quello in cui mi ritrovo. Così è stato per Lacrime di sale e a contare in questo caso è stata anche la forma della scrittura. Se avessi scelto la formula del libro intervista, Lacrime di sale sarebbe stato un’altra cosa. L’essere, invece, scomparsa, aver scelto di far raccontare a Bartolo in prima persona le storie di uomini, donne e bambini e avergli chiesto di raccontare in prima persona anche la sua storia, ha dato al libro una forza che altrimenti non avrebbe avuto. E ogni volta che leggo agli studenti o agli adulti le pagine del libro (e in quasi tre anni abbiamo incontrato migliaia di persone in Italia e in Europa) mi convinco che è stata la scelta giusta. Perché le storie arrivano come pugni allo stomaco. E non a caso alla fine di ogni incontro tutti ci dicono “non pensavamo che fosse così”.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Io credo che la letteratura, la musica, la fotografia, il cinema, l’arte in generale, possano incidere tantissimo. Con Pietro diciamo sempre che il nostro è un libro “politico” perché non è neutro, prende posizione, cerca di far passare dei messaggi motivandoli. Avere scritto Lacrime di sale è stato un gesto politico. Che metteva insieme una doppia esigenza. La mia, di andare oltre il racconto televisivo da cronista, spesso limitato e limitante, anche negli anni da inviata a Lampedusa. E l’esigenza di Pietro di raccontare le storie che aveva ascoltato in tanti anni di soccorso e accoglienza in banchina. Pietro è un medico, io una giornalista. Ma entrambi siamo anche parte di una società civile che ha il dovere di denunciare ciò che non va. Ognuno di noi, per ciò che fa e ciò che è, ha un ruolo “politico” e deve esercitarlo. Non si può accettare passivamente, ad esempio, ciò che sta accadendo nel Mediterraneo. Il mio strumento è la scrittura e proverò, fino a che potrò, a utilizzarlo al meglio.