Nella puntata di oggi di “Cinque domande, uno stile”, Mario Fillioley porta una sana dose di ironia. Arguzia e capacità di osservare il mondo circostante costituiscono la cifra delle sue scritture (come direbbero quelli bravi a presentare gli intervistati pur di matematica non capendo un’”h”, ma quella si sa, sarebbe questione grammaticale).
Traduce dall’inglese e scrive in italiano, scrive in italiano e traduce dall’inglese, talvolta in mutande, dice, altre volte vestito e nelle pause insegna, italiano, forse inglese. Cura il blog Aciribiceci e lo si trova sul Post.it, su “Il” oltre che in libreria con gli scritti “Lotta di classe” (2016, Minimum Fax) e “La Sicilia è un’isola per modo di dire” (2018, Minimum Fax).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Fino a ora non ho mai progettato storie o trame per delle storie. Certe volte mi viene una specie di urgenza di dire qualcosa, urgenza nel senso che devo sbrigarmi a dirla, altrimenti poi finisce che si perde nel flusso delle altre cose pensate e quindi in quel momento penso che sarebbe bello riuscire a fermarla con delle parole, evitare che se ne scappi via. Questa “cosa” , per me, di solito è una specie di vignetta mentale, un dialogo, un aneddoto mio o di qualcun altro, reale o inventato, insomma qualcosa che è in qualche modo legato al ricordo, al vissuto, lontano oppure di un minuto fa, e che poi si può modificare con la fantasia, e che serve a fare da innesco per degli altri pensieri, che da vicino o da lontano sono collegati a questa scenetta.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Io credo che uno dei molti punti deboli delle cose che scrivo sia questo vezzo di cercare una chiosa. Non sono ancora abbastanza bravo a vigilare su me stesso quando scrivo, e sui finali vado avanti per euristiche, anzi diciamo proprio che vado avanti un po’ a trucchetti. Uno di questi è uscirsene appunto con dei finali buffoneschi, insomma con dei finali che si capisce che non sono dei finali ma la carnevalata di un finale, delle frasi un po’ effetto che è un po’ come se annunciassero “Guardate, mi sono vestita da finale, però così, tanto per scherzo”. E poi fare in modo che in un punto successivo del libro o dell’articolo o del racconto, oppure anche in un punto precedente, si recuperi una specie di continuità con quello che sembrava essersi concluso.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
Sì, c’è stato, Per qualche anno ho fatto il traduttore. Poi tradurre ha cominciato seriamente ad alienarmi, a crearmi scompensi nella vita quotidiana: quando traduci non hai orari, non devi vestirti per andare in ufficio, puoi stare tutto il giorno a casa con le mutande, farti crescere la barba e abbrutirti: ci siete tu, il libro e il computer, e questa cosa in realtà ti porta a fissarti, a fare solo quello. Quindi ho smesso di tradurre e ho cominciato a fare l’insegnante. Però mi sono accorto che proprio il gesto di mettermi davanti al computer a scrivere, a radunare la concentrazione, era una cosa che mi mancava moltissimo. Allora ho aperto un blog e ho cominciato a scrivere piccole cose mie. Credo che il momento sia stato esattamente questo, era la fine del 2011.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Da principiante assoluto, posso dire che per me è un dilemma: devi cercare la tua voce, devi in un certo senso “avere” una tua voce, quando scrivi secondo me è come per i cantanti, che quando senti due note subito pensi “Ah, ma questo è Franco Battiato”. Allo stesso modo quando leggi due righe dovresti subito pensare: “Ah ma questo è Philip Roth”. Però allo stesso tempo si dovrebbe evitare di dire tutto con la stessa voce, cioè non fare il verso a se stessi. Ci vuole bravura e credo molta applicazione: imparare a usare la voce tua per dire un po’ tutto quello che vedono i tuoi occhi, senza restare impigliato nel modo di scrivere che ti sei costruito. In pratica credo si tratti di riuscire a rimanere spontanei.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
La letteratura nel senso di poesia o di prosa d’arte non saprei. È da sempre una faccenda per pochi, come tutte le arti o le scienze teoriche. Secondo me a incidere molto nella società è l’intrattenimento. I prodotti di intrattenimento effettivamente modellano l’immaginario di molte persone, da ormai un sacco di tempo, almeno da quando esiste la società di massa. Del resto le mode alla fine da cosa nascono? Di solito da prodotti di intrattenimento: musica, film, libri, teatro, no? L’immaginario prodotto dall’intrattenimento mette in moto atteggiamenti, e soprattutto orienta i consumi, che è una cosa enorme. Un prodotto di intrattenimento però che deve fare? Io credo che debba intrattenere e basta, non credo debba porsi altro scopo se non quello di intrattenere. Solo che a quel punto può subentrare una china pericolosa: si creano prodotti di intrattenimento vacui o che addirittura rimbecilliscono quelli che ne fruiscono. Quindi è difficilissimo prendere una posizione. L’unica cosa che mi sembra di avere capito è che quelli bravi ti intrattengono sempre in un modo che non è mai del tutto stupido, nemmeno quando lo sembra.