Ospite di “Cinque domande, uno stile” è la scrittrice Nadia Terranova. Esordisce pubblicando con Patrizia Rinaldi la raccolta di racconti per ragazzi “Caro diario ti scrivo…” (2011, Sonda) cui segue una serie di libri per ragazzi. Del 2015 è il romanzo “Gli anni al contrario” (Einaudi – Premio Bagutta opera prima, Premio Brancati). Tra gli altri, ricordiamo “Addio fantasmi” (2018, Einaudi) e “Come una storia d’amore” (2020, Perrone).
Ringrazio l’amico Christian Cannavò, fautore dell’incontro.
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Un’idea è frutto di tanti momenti, per elaborarla posso impiegare anche anni: è un insieme di ricordi, attimi vissuti e non vissuti, pura invenzione e racconti di vita. Quando riesco a darle forma provo molti sentimenti, paura ed euforia, ma anche molta felicità.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Una parola scritta può aprire un’infinità di mondi. Può anche costruirne altri, quindi non la definirei la fine di qualcosa, ma sempre un inizio.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”
Io ho cominciato a scrivere da piccola. Mio padre viveva lontano da me e gli inviavo delle lettere periodicamente per raccontargli la mia vita. Forse in quegli anni ho capito che la scrittura era il mio rifugio, un luogo in cui non avrei dovuto giustificare nulla, potevo essere giusta o sbagliata ed ero libera.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Io penso che lo stile non sia vincolante ma necessario e non rappresenta un ostacolo per chi scrive. Anzi, è una sicurezza, un rifugio. Non è faticoso perché ci entri spontaneamente quando scrivi.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Esistono due modi di fare questo mestiere. Si scrive con l’intento di fare letteratura civile e politica e quindi si scrive cercando di stare dalla parte di ciò che è “giusto”. Oppure si scrive pensando a sé stessi e alla propria penna. In questo caso la scrittura può avere anche un effetto ripugnante, ma io ho scelto di fare la scrittrice per portare sulla pagina tutta la mia libertà.
Non sono d’accordo sull”effetto ripugnante “…
Lo scrittore “engagé “ , nenessariamente impegnato politicamente paga sempre un prezzo alla libertà di espressione . E non capisco perché la scelta di esplorare la propria interiorità o comunque di non avere altra finalità che il piacere di scrivere( o avvertirne il bisogno) debba considerarsi disdicevole.
La funzione sociale dello scrittore può essere implicita in qualsiasi tipo di scrittura.