Nero su nero •••••
– Leonardo Sciascia, 2018 – Adelphi / CDS – pp. 351 – € 6,90.
«Nero su nero» è un testo da tenere sul comodino, da aprire alla bisogna, per individuare come allora lo scrittore sia riuscito a tracciare il solco del cammino che oggi ci conduce. Là dove stiamo andando. Sciascia viaggia tra le pagine di questo libro e ci guida nei luoghi della sua infanzia, nel rifugio della campagna dove si diverte a costruire i suoi libretti. Ci accompagna lungo le strade della sua Parigi, poi ripiomba a Palermo e nelle incongruità della Sicilia, dell’Italia. Un paese dolorosamente senza memoria preda d’affanni e facili entusiasmi. Nelle arguzie che tracimano dal testo, nelle analisi di un becero trasformismo politico, ferocemente lucide, nel disincanto, nell’amore per la storia, si traccia e definisce uno dei più grandi pensatori (s’esclude la parola intellettuale di facile dileggio in quest’epoca) della cultura italiana, nonché splendido e preciso scrittore. Artista, precursore.
«È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino. Ma di intelligenti c’è stata sempre penuria; e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l’olio e il vino dei contadini.»
[p. 6]
«Sarò un moralista – e dunque un qualunquista: ma mi pare che i particolari guai del nostro paese nascano tutti da una inveterata e continua doppiezza, da un vasto e inesauribile giuoco della doppia verità che partendo dall’alto soltanto si arresta là dove la verità non può permettersi il lusso di essere doppia – ed è una, inequivocabile: quella della povertà, del dolore. E appunto è un giuoco che può continuare a svolgersi e a scorrere, per anni, per decenni, grazie al fatto che detriti e veleni vanno a finire in basso, ad aggiungere miseria alla miseria, sofferenza alla sofferenza. A parte dunque quella verità che sta in fondo, a sopportare e a soffocare, non c’è cosa o azione nel nostro paese che non sia viziata dalla doppiezza. È una doppiezza propriamente «costituzionale», che dal potere si dirama e moltiplica in perfetta circolarità, tornando al potere come linfa nuova, depurata, come abbiamo detto, di quei detriti e veleni che vanno a finire in basso… Mai c’è stata un’epoca, mi pare, in cui come oggi quello che si dice ha più importanza di quello che si fa. Basta che uno della retroguardia dica di essere per l’avanguardia, ed è un avanguardista; che un reazionario dica di essere per la rivoluzione, ed è un rivoluzionario; che un mascalzone dica di essere per l’onestà, ed è onesto. E se non si torna a chieder alle persone il conto preciso di quello che sono, di quello che fanno, di come vivono; se non si torna a giudicare un’azione per quella che è, senza far caso se è fatta con la mano sinistra (che sa quello che fa la destra) o con la mano destra (che sa quello che fa la sinistra), temo che nessuna riforma o rivolgimento varrà a cavare il classico ragno dal classico buco: immagine del tutto pertinente alla situazione, e anzi da moltiplicare – tanti buchi, tanti ragni.»
[p. 21-2]
«Quando, accompagnato da un giovane, mi avvio verso la casa di B., vedo in piazza il monumento ad uno scrittore cui, circa un secolo e mezzo addietro, il paese ha dato i natali. Tra cinquant’anni faranno il monumento al mio amico, conserveranno la sua casa, i suoi libri, i suoi ricordi? Mi affiorano alla mente dei versi che Luis Cernuda scrisse in una situazione quasi uguale: «La sua vita gli si può perdonare, poiché è morto del tutto; il suo lavoro ora conta, addomesticato al loro mondo, come altro oggetto vano, altro ornamento inutile… Meglio la distruzione, il fuoco». La Spagna, la Sicilia. Gracián diceva l’invidia malignidad hiemica: un male spagnuolo. Un male siciliano. Ma è soltanto invidia il sentimento che da vivo, qui, riscuote lo scrittore, l’artista? Non c’è anche, più profonda, l’avversione per colui che osa rompere il silenzio?»
[p. 33]
«Così è: bisogna sempre aspettare che tra realtà e poesia l’equazione si compia.»
[p. 74]
«Un’idea morta produce più fanatismo di un’idea viva; anzi soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte. E sono tanti, e talmente brulicano sulle cose morte, da dare a volte l’impressione della vita.»
[p. 97]
«Si è così profondi, ormai, che non si vede più niente. A forza di andare in profondità, si è sprofondati. Soltanto l’intelligenza, l’intelligenza che è anche “leggerezza”, che sa essere “leggera”, può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità.»
[p. 168]
«Le radici del fascismo sono tante, si allungano e affondano in tante direzioni, in tanti strati: ma le più forti e riconoscibili sono indubbiamente quelle che si diramano e si nutrono nell’intolleranza. E di intolleranza in Italia oggi ce n’è tanta, troppa; al di là di quello che è il caso di chiamare limite di tollerabilità dell’organismo sociale. E poco male se, a qualsiasi grado, si manifestasse soltanto tra individui, parti, fazioni ideologicamente lontane e nemiche; ma si manifesta anche, e più, tra vicini. E ancora c’è da osservare che la destra, nelle sue varietà, ha un’interna tolleranza e solidarietà; mentre la sinistra è, in quella che dovrebbe essere la sua parte più viva, tutta un accapigliarsi e scavalcarsi. Si dirà: appunto perché viva. Ma a volte si muore per troppa vitalità.»
[p. 228-9]
«Filarsela dalla vita, non esserci più. Non ha voluto altro, vivendo; non ha pensato ad altro. Ed è da questa estraneità che ha visto limpidamente la vita, che l’ha come ripetuta nelle sue pagine.»
[p. 316]
«Ogni anno, qui in campagna, scrivere un libro – un piccolo libro – è per me riposo e divertimento: quale ne sia l’oggetto, la materia. Il riposo e il divertimento della scrittura, il piacere di fare un testo (e questo piacere è, per un autore, la sola misura di quello che sarà per il lettore e per il critico – ma per il critico che riuscirà a non perdere la condizione di lettore – il piacere del testo). Ma questo su Moro mi ha dato una inquietudine che sconfinava nell’ossessione. E ne esco stanco: però con l’impaziente voglia di mettermi ad altra scrittura, ad altro testo.»
[p. 324]
«Si parla di politica. Il contadino mio vicino e mio amico a un certo punto dice: “Una volta, qui in paese, c’era una famiglia di buoni mastri-muratori. Io avevo bisogno di murare e sono andato da loro. Mi dissero: noi non possiamo, abbiamo molto da fare; ti mandiamo Merulla – un muratore che conoscevo. E io dissi: e c’è bisogno che me lo mandiate voi, Merulla? Ci vado io, a chiedergli di venire a lavorare da me”. Fa una pausa e poi spiega la parabola: “Io ho votato sempre partito comunista; ma alle ultime elezioni, il 13 di maggio, mi sono detto: e che bisogno ho di farmi portare dal partito comunista alla democrazia cristiana? Ci vado io”.»
[p. 329]