Paolo Roversi è l’ospite di oggi di “Cinque domande, uno stile”. Scrittore, giornalista, sceneggiatore e … “Bukowskiano”. All’autore americano ha infatti dedicato una biografia a quattro mani in collaborazione con Fernanda Pivano e un romanzo con lo stesso Bukowski in veste di protagonista (Taccuino di una sbronza, Morellini editore, 2014). Creatore del fortunato personaggio Enrico Radeschi protagonista di vari romanzi gialli, tra i quali l’ultimo “Alle porte della notte” (2019, Marsilio).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Di grande euforia. Spesso però non è un processo immediato ma la fine di un percorso di ricerca.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Necessaria perché altrimenti non riusciremmo mai a chiudere una storia per dedicarci alla successiva.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
Sì quando ho iniziato a fare il giornalista. Da lì poi diventare uno scrittore è stato un passaggio quasi obbligato.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Lo stile lo si costruisce (e lo si acquisisce) con il tempo e l’impegno. Ottenere un proprio stile riconoscibile è un pregio, non un
vincolo.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Le storie riflettono il mondo che viviamo e sono politiche per definizione. Ci raccontano chi siamo da sempre. Oggi, in particolare, le storie crime partono da un libro per poi diventare fiction in Tv o podcast su Spotify. Sono ovunque.