L’ospite di oggi di “Cinque domande, uno stile” è la scrittrice Patrizia Rinaldi. Autrice che si muove con disinvoltura su vari registri letterari. Narratrice per ragazzi (nel 2016 ha vinto il premio “Andersen”) e ideatrice del personaggio Blanca Occhiuzzi, protagonista di una serie di storie poliziesche. Tra le tante opere ricordiamo “Tre, numero imperfetto” (2012, E/O), “Federico il pazzo” (2014, Sinnos), “La figlia maschio” (2017, E/O), fino all’ultimo “Blanca” (2021, E/O) da cui è tratta l’omonima serie TV che andrà in onda su RAI1.
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Quando l’idea si presenta, non compare da sola. È accompagnata dalla necessaria esaltazione, dal proposito di tenacia, che è sempre con me, dall’esercizio per cercare il linguaggio che meglio si avvicini all’abito dell’intuizione. L’idea è tuttavia anche educata dal dubbio e dalla sua scomposizione. Se l’idea regge, nonostante la destabilizzazione critica, posso cominciare.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
È evidente solo dopo accurata revisione. A me interessa il lavoro di correzione della parola sulla parola. L’evidenza della conclusione è una sintesi, a lavoro finito.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”
Sempre. Non ricordo un momento in cui non abbia avvertito tale necessità, anche da molto giovane, prima di qualsiasi possibilità di pubblicazione. Vedere la vita con gli occhi scritti è stato per me uno dei modi fondamentali per ricompormi, per sopportare, per prevedere la contentezza o la speranza quando non c’erano, per rendere più commestibile il dolore, per educare il mio punto di vista con il beneficio di altri sguardi.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Ho cercato di conservare e proteggere il mio stile linguistico nonostante la scarsa – scarsissima – dedizione a un unico genere letterario. Per me la libertà di spostarsi in vari contesti narrativi è un modo di vincere il vincolo. Mi aiuta a non somigliarmi oltre la decenza. Mi interessa il tentativo di adattare il linguaggio a quello che si sta raccontando, mantenendo il suono della propria scrittura.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Scrivere è un gesto politico pure quando non lo è: anche nella strumentale assenza di qualsiasi presa di posizione c’è una scelta precisa. D’altro canto, una definizione politica estremamente sottolineata non è detto che generi letteratura chissà quanto immortale. Purtroppo, però, da anni la cultura tutta ha subito un processo di depotenziamento, quindi la forza, anche quando c’è, è relativa.