Non parlo bene, non mangio troppo.
Talvolta me ne resto muto a guardare oltre l’orizzonte.
Non mangio troppo e certe volte non c’è di che mangiare intorno. Proviamo a rovistare un po’ ma ai margini della città il vento è passato da un pezzo, e nulla ha lasciato.
Così ci muoviamo e andiamo verso altre strade.
E usciamo in mare.
Altri seguono i nostri passi. E non fanno rumore. Altri non hanno di che mangiare e si muovono. Senza far rumore, leggeri sull’acqua, come quel tizio che mi raccontano è stato capace di camminarci su. Sopra l’acqua dico, proprio come fanno gli uccelli, eppure senza volare, perché uccello non era.
Dicono fosse un pescatore.
Come me, come noi.
Non parlo bene eppure serve parlare. Per farsi capire, per dire al mondo che in qualche modo esistiamo, e il respiro che affolla la notte e la riempie di domande non deve passare in silenzio. Ma qui, in un equilibrio che non vuole saperne di placarsi, restiamo in ascolto del mare.
Non ho molta vita sulle spalle, né grandi peccati da farmi perdonare, per questo la sua voce non riconosco ancora. Il suono delle onde m’inganna, e spesso mi butta giù. L’orizzonte sempre uguale, e sembra d’essere perduti in un colore che riempie gli occhi come a soffocarli. E l’aria pregna di sale, e la brezza che non è mai gentile. Gentile con quelli come noi, che poco hanno da mangiare ed escono per altre strade. Ogni mattino. Prima che lo stesso mattino sappia d’essere vivo il nostro ansimare scroscia tra le onde e lì si perde, come se non fosse mai esistito.
Non parlo bene, eppure certe volte vorrei saperlo fare. Per dire. Per poter tirare fuori quest’anima, e il calore che sento, e il dolore che avverto.
Perchè il sale lascia buchi che mai riusciremo a riempire e non lenisce le ferite, ma le porta vive e nude agli occhi. E lacera dentro il sale, e spezza le gambe il mare. E ce ne vogliono di ben salde per contrapporsi alla sua forza. Io non ho molti anni sulle spalle e neppure tanti peccati da farmi perdonare, ma il sale sulla pelle lo sento eccome, così come il puzzo del mare. Entra dentro prima che tu possa accorgertene, e s’insinua, così dicono, nell’animo profondo e lo tiene lì, soggiogato al suo volere. E il ritmo del tuo pensare cambia al suo mutare. Uomo in tempesta furente, marinaio di bonaccia malinconico. Ma questa barchetta che ci trasciniamo sotto i piedi non sa di che cantare. Il silenzio del mare invade le mie orecchie. Devo distrarmi, calare la rete, girarmi, guardare l’orizzonte e socchiudere gli occhi pensando a qualcosa di migliore. Scostare il remo, evitare di pestare i piedi al mio capitano.
Devo distrarmi per non soffocare al silenzio del mare.
Accade di non riuscire a sentire il suono dei miei pensieri, tanto forte è il frastuono di quel silenzio che ci pervade tutti, e più delle onde ci scaraventa a terra. Siamo uomini, piccoli uomini in balia di un silenzio che non ha fine. E ci spostiamo lentamente lungo la superficie increspata delle onde, senza far rumore.
Non mangio troppo, né bene so parlare, e gli occhi talvolta mi bruciano. Dovrei essere abituato mi dicono i vecchi. Ma così non è. Devo chiuderli spesso i miei occhi, e sovente devo trattenere i miei conati.
Anche se non ho molto da sputare al mondo.
Qualche volta ho voglia di lasciarmi andare tra le onde, e dentro quell’inquieto cavalcare vorrei nascondermi. Il vecchio capitano, come se sapesse, sorride con le sue labbra che labbra un tempo sono state, e adesso ritirate rimangono mute. Il silenzio del mare tutto avvolge, come quelle carovane di senza speranza, così vicini a noi, eppure lontani, oltre l’orizzonte. Un orizzonte che non riesco a immaginare più silenzioso del mio, eppure i vecchi dicono che oltre la schiena del mare c’è un silenzio che non sanno dire. Ed io ho più paura di nascondermi e stringo forte il remo, e tengo il capo di una rete che stride come se urlasse di non volere essere tirata su. E i pesci che piangono al contatto dell’aria, loro che vengono dal mare e nel mare sanno bene nascondersi.
Io no. Io non sono un pesce.
E me ne resto muto a guardare intorno.
[14 Febbraio 2011]