“Cinque domande, uno stile” ospita il giornalista e saggista Piero Melati. Autore impegnato, ha approfondito le tematiche legate alla criminalità organizzata, in particolare quella siciliana. Ricordiamo “La notte della civetta. Storie eretiche di mafia, di Sicilia, d’Italia” (2020, Zolfo), “Giorni di mafia” (2017, Laterza) e “Vivi da morire” (2015, Bompiani – in collaborazione con Francesco Vitale). Recentemente in libreria con il suo ultimo lavoro “Paolo Borsellino – per amore della verità” (2022, Sperling & Kupfer).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
R.Barthes (mi cospargo il capo di cenere per la citazione, ma penso che non dovremmo fare altro che citare i grandi) lo ha spiegato ne “La preparazione del romanzo”. Consigliatissimo (anche se non scrivete e/o non scriverete romanzi).
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Né evidente né necessaria. Libero arbitrio, piuttosto, che vuol dire anche maggiore responsabilità.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a sé stesso “devo scrivere?”
Sono grafomane sin da piccolo. Pubblicare è altra cosa. Scrivere come respirare e come speranza (illusione?).
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Anche un limite o un ostacolo. Ma se si conquista (la “voce”) è tutto, arrivi agli altri.
La letteratura oggi è quasi sempre inessenziale. Tranne luminosissime eccezioni. Altri saperi sono più significativi. Tornare a considerare lo scrivere un gesto “politico” è la rivolta prossima ventura.