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Prologo al correttore di bozze


Quando le forze dell’ordine fecero irruzione nel monolocale erano le dieci del mattino. La città rumoreggiava caoticamente. L’incedere delle automobili superava di gran lunga i sospiri delle persone per la strada intente ad andare, lì dove qualcuno attendeva. C’era gente che passo dopo passo s’incamminava a far la spesa, altri in puntuale ritardo per l’appuntamento di una vita, altri ancora a zonzo. A metter naso per negozi senza un centesimo da spendere ma con la ferma volontà di puntare il vestito griffato, le scarpe ultimo grido, l’ultimo figlio della tecnologia che avrebbe permesso di condividere i propri rutti, in una rutilante gara per continenti. C’era gente intorno, ferma a scrutare quelle due volanti che a sirene spiegate s’erano fermate ad intralciare la passeggiata mattutina, e col loro stridere e i lampeggianti ancora vivi disturbavano i pensieri annebbiati dal mattino che non voleva sapere di svegliarli.
Il capo pattuglia della prima volante chiese al portinaio le chiavi. Il signore, un settantino mal concio, piegò le piccole spalle, che ancor di più svanirono oltre il lungo collo, e senza dir parola fece capire che non era affar suo. Quel vecchietto claudicante non aveva mai avuto chiavi. Figurarsi quelle del tipo strano che abitava il terzo piano di uno stabile fatiscente, come ogni periferia sa dare.
Da giorni non si avevano notizie dell’inquilino.
Il signore dalla pelata lucente, i baffi curati e lo sguardo intelligente, ma taciturno. Così lo si definiva nel circondario. Uno di poche parole e molte bottiglie sussurravano, un tipo inevitabilmente strano, poco portato a socializzare, che salutava sempre ma non dava mai soddisfazione alcuna d’un dialogo, anche il più banale possibile. Credevano fosse intelligente proprio perché non erano mai riusciti ad appurare il contrario.
Le informazioni che i carabinieri riuscirono a mettere insieme dalle varie testimonianze dei vicini furono poche e risicate.
L’inquilino misterioso aveva preso in affitto il monolocale un paio di anni prima, ma nessuno ricordava precisamente quando, del resto del proprietario dello stabile non v’erano tracce da anni. Indagato per una serie infinita di reati legati all’usura e allo sfruttamento s’era dato in qualche isolotto tropicale. Gli affittuari versavano puntualmente, ove possibile, la loro pigione presso un conto corrente canalizzato dio sa chissà dove e ogni qualvolta il pagamento giungeva in clamoroso ritardo un avvocatuccio dal fare mellifluo bussava alla loro porta invitandoli a pareggiare i conti. Ma quest’aspetto marginale alla vicenda venne fuori anni dopo il ritrovamento del cadavere dell’uomo.
Il vicinato affermava che l’inquilino del terzo piano probabilmente era uno scrittore, o qualcosa del genere. Aveva di certo a che fare con i libri. L’appartamento ne era pieno, dicevano. Spesso l’avevano incontrato per le scale ingombro di pacchi pieni di volumi, e carte a bizzeffe. Qualcuno raccontava d’aver assistito a strani riti notturni a riguardo.
L’inquilino del terzo piano si divertiva a canticchiare canzoni in una lingua che non era dato comprendere e lanciare dalla finestra libri per la strada e fogli sparsi. Ma chi portava questa testimonianza asseriva con convinzione che ciò cui aveva assistito accadeva nelle notti di tempesta.
Il fruttivendolo giù all’angolo del quartiere, interrogato, disse che l’uomo non disdegnava la compagnia femminile. Non poche volte alle prime luci dell’alba, quando di ritorno dal mercato generale s’apprestava ad aprir bottega, gli era capitato d’imbattersi nell’uscita furtiva degli amanti verso la strada. E mai che la donna fosse sempre la stessa. Il fruttivendolo aveva una vista ottimale, e poteva giurarci, mai più di una volta la medesima femmina accanto. Beato lui sospirava alla fine, davanti l’appuntato distratto che appuntava, appunto.
Due inquiline di cui non c’è dato di conoscere l’identità, visto lo stretto riservo che gli inquirenti hanno mantenuto sull’inchiesta, interrogate a loro volta, sono state, in qualche modo, costrette ad affermare d’aver avuto in tempi coincidenti relazioni saltuarie con l’uomo del terzo piano. Entrambe sposate, entrambe donne morigerate e di buona reputazione sono scoppiate in lacrime alla notizia del ritrovamento.

Il cadavere di A.M. fu ritrovato in avanzato stato di decomposizione. Dopo numerosi tentativi dei cinque militi accorsi in loco previa segnalazione del vicinato. Alcuni insistentemente avevano avvertito, in maniera distinta, un puzzo di carogna, così dissero al telefono, proveniente dal monolocale in questione. Dopo alcuni giorni di mancato intervento e su sollecite richieste i carabinieri giunsero al numero civico 25 di via B, alla periferia di Roma.
Lo spettacolo fu devastante. Il corpo di un uomo, per quello che era dato sapere a prima vista, era riverso per terra, dalla tazza del cesso, come sospeso in un gesto naturale che non era stato possibile compiere. Nessun pudore per un cadavere in quella postura, di cui poco era possibile riconoscere.
Il medico legale, dopo accurata diagnosi, concluse che l’uomo era morto almeno due settimane prima, senza che in quel lasso di tempo nessuno al mondo ne avesse reclamato la presenza.
Il maresciallo A.G. rimase a lungo in quel piccolo appartamento, dicono i suoi sottoposti. Rimase intento a leggere le centinaia di pagine sparse per le pareti. Appiccicate con mezzi di fortuna, ora spille abusate, ora chiodi, colla, gomme da masticare perfino. In quei fogli il morto aveva lasciato frammenti di sé, così enfaticamente disse il maresciallo alla moglie, dopo aver fatto l’amore quella notte per dimenticare l’odore di morte che aveva intriso la sua pelle al mattino.

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