Tutti scrivono, nessuno scrive. Tutti pubblicano, e sganciano qualcosa, e poco si vende, e nessuno ti legge se non stanno a recensirti i soliti noti, previo ovviamente sgancio di tintinnante denaro.
Io posto come si dice nel gergo dei blogger.
Su questa pagina potrete leggere “l’incanto della follia”. Il mio nuovo romanzo.
Piccole parti quotidiane per chi vorrà conoscere la storia di questo ragazzino, per chi vorrà camminare e sbagliare con lui nell’illusione di crescere.
Buona lettura.
Capitolo I
(parte prima)
Nell’estate dell’ottantatré ci trasferimmo. Era un piccolo paese arroccato tra i monti, dove l’alba tardava ad arrivare e il gelo se ne restava cheto cheto senza che il sole provasse a scostarlo d’un po’. Poi giungeva il vento di scirocco e lentamente s’insinuava fin dentro le ossa scricchiolanti dei vecchi, e segnava il passo. Spingeva dentro casa la gente e liberava le strade, mescolava polvere e sudore. Lasciava le labbra secche, impastate, alla disperata ricerca di un sorso da bere.
Che fosse acqua, o vino o grappa poco importava.
Era necessario bere.
E c’erano capre intorno e conigli saltellanti per la via, e vacche intente a rimuginare sui loro pensieri che avevano sempre la stessa voce e un identico colore. Vacche per la strada, non più automobili gracchianti, e vecchi di mille anni. Bianchi senza candore, pelle nera, diversa da quella che rappresentavano in giro, lontana dalle sfumature continentali. Nordafricani in cammino, ingobbiti dal sole, che arrancavano per la via aggrappati a bastoni piegati, così come le loro gambe. Vecchi dal volto solcato nel profondo. L’aratro del tempo tirato da una bestia che non c’è dato vedere. Scavati nel profondo più dei campi circostanti, lavorati da antichi macchinari che venivano ancora trascinati dalle bestie.
E c’era puzzo, puzzo di bestie, sì, insopportabile puzzo, lontano miglia e miglia dall’odore dei gas di scarico della città.
Mio padre aveva vinto il concorso bandito dal comune per un posto da ingegnere capo presso l’ufficio tecnico. Tutti, appassionatamente, lo avevamo seguito in quella nuova avventura che speravamo potesse portare ad un maggiore equilibrio economico le nostre finanze ridotte al lumicino.
La libera professione nello studio d’un vecchio amico scomparso qualche tempo prima gli aveva procurato più fastidi che guadagni.
Rimanevo pomeriggi interi nascosto in fondo al magazzino, nel retro di quell’immenso locale che in giro s’ostinavano a chiamare studio. Me ne stavo silenziosamente rinchiuso dentro uno dei mobiletti. E lì al lume di una piccolissima torcia verde giochicchiavo con il gruppetto delle mie inseparabili piccole automobili.
E non avevo bisogno d’altro.
Talvolta mi addormentavo e papà sudava freddo non trovandomi e chiamando a gran voce, fin quando Giannuzzo, l’inseparabile Giannuzzo, non mi scovava fiero, rannicchiato in posizione fetale al sicuro nel mio piccolo rifugio.
Durò poco quel mio rifugio, che papà pensò bene di cambiare aria e vita.
Dopo averle tentate tutte per risollevare il proprio morale di creativo svilito dagli intrallazzi quotidiani, e tentare di rimpinguare il portafoglio sempre più magro, era giunto alla conclusione che nell’edilizia “o ti sporchi le mani con la calce che gli altri vogliono che compri o ne resti fuori”. Pertanto, ligio alla sua incrollabile morale di borghese onesto, restò fuori dai moltissimi affari che nella sua città si stavano per intraprendere, accettando con sollievo quell’impiego in uno sperduto paesino sospeso tra collina e montagna.
Sospeso, talvolta aldilà delle nuvole.
Un luogo mistico per certi aspetti, che mio padre considerava più tranquillo sotto ogni punto di vista.
Ci spostammo come una piccola carovana familiare in cerca di un posto migliore, senza però sollevare molta polvere per la strada. Con annessa mobilia ritenuta indispensabile e di enorme legame affettivo, cane incluso, c’incamminammo a bordo della nostra inseparabile Alfetta. Era un vecchio modello, d’un improbabile giallo paglierino, logorata da chilometri e chilometri fatti negli anni trascorsi in giro per l’Italia da mio padre come rappresentante di spazzolini. (Annoverava anche quell’esperienza nel suo sterminato curriculum lavorativo).
Il furgone della ditta di arredo fondata da zio Carlo (sgargiante verniciatura turchese) pilotato da Giannuzzo, l’inseparabile compagno di bevute di papà, era pronto a rincorrere lungo i tornanti e le salite impervie che ci avrebbero condotto alla nostra nuova residenza.
Casa nuova.
Era una piccola e modesta abitazione ai piedi dell’ultima salita, a qualche passo dal particolare santuario. Poco più d’un centinaio di metri quadri ben distribuiti e un enorme giardino a far da corollario. Papà aveva convinto il proprietario a mollargliela per qualche lira al mese. Per nostra fortuna, viste le ridottissime richieste d’alloggi in quel paesino di poche anime, l’affare si fece. In conclusione di una breve contrattazione, più di facciata che di sostanza, il simpatico anziano dalla barba lunga – che io ribattezzai ben presto come il nonno di Remì, cercandogli sulle spalle furiosamente la scimmia che mai riuscii a scovare – accettò.
Partimmo di primo mattino abbandonando la vecchia casa.
Nella mente mi ritrovo dietro le spalle la città, e l’aria impregnata di smog alla quale m’ero da tempo abituato. E l’effluvio di panelle appena affondate nell’olio incandescente, quel profumino delizioso che risale lento al quinto piano del nostro appartamento, molto più velocemente dell’ascensore sempre guasto. E i clacson sempre pronti a strombazzare prima che il verde sia verde, prima che il tempo abbia tempo di scorrere, e le sirene delle ambulanze che provano a farsi largo tra l’angosciante immobilità della strada, e le auto e le corsie preferenziali che si preferisce tenere bloccate, e Mariano, il portinaio, che ogni buon mattino mi rincorre dopo esser stato spernacchiato con gusto per la sua calvizie.
Buongiorno testa pelata.
Lasciavo casa.
Quella casa che pensava bene di tenersi stretti i miei primi intensi otto anni. La casa che avevo considerato di non abbandonare mai.
Dopo due ore buone di cammino ad andatura turistica arrivammo nel piccolo centro superando d’impeto, con un cambio di marcia repentino, quella che sarebbe diventata la nostra nuova abitazione, fino a raggiungere lo spiazzo del santuario. Mia madre aveva insistito a lungo durante il percorso dicendo che sarei rimasto senza fiato alla vista panoramica che si poteva ammirare da quel punto. Spesso a tal proposito aveva spezzato con la sua voce dolce, ma fluttuante su un registro acuto, l’atmosfera eterea che la musica dei Pink Floyd, caricata sul mangianastri, tentava di mantenere. Non appena papà ebbe parcheggiato, con estremo entusiasmo finalmente, come liberata da una tormentosa prigionia, mamma uscì di corsa dall’Alfetta, che respirava un po’ dopo quell’immane fatica, costringendomi a seguirla.
E ne valeva la pena.
Dal piazzale antistante la minuscola chiesetta, che pareva esser stata collocata lì da un super elicottero militare, si dominava l’intera vallata e oltre riuscivo a scorgere il mare. Vedevo il cielo sorridere, ma non avevo granché da sorridere, io.
Eppure le colline parevano divertirsi.
Scendevano ondeggianti verso la costa. Talvolta risalivano d’improvviso, come se provassero ad impennare, e pensavo a Ginetto e alla sua bici e tutte le volte che finiva dritto per terra a lamentarsi ché qualcuno l’aveva spinto a tradimento, mentre noi sapevamo bene che era caduto perché scarso a mantenere a lungo l’equilibrio su una ruota. Ma Ginetto non era lì, e non sarebbe stato capace di arrampicarsi fin lassù con la sua bici. Era troppo vecchia, e troppo scarso lui a tenere l’equilibrio. Forse Giacomo avrebbe saputo arrivare fin lì, ma a pensarci bene gli capitava spesso di perdersi ogni volta che provava ad allontanarsi dal quartiere, e per giungere fino allo spiazzale dove adesso mi ritrovavo, lontano da casa e dai miei amici, di strada ce n’era tanta da fare.
Altro che uscir fuori dal quartiere.
Pensavo a tutto questo mentre i miei occhi provavano a scrutare oltre quello che potevano vedere. Immaginavo di scorgere le barche dei pescatori. L’immaginavo al ritorno carichi di un buon pescato. Contenti d’aver fatto bene a lavoro, felici di ritornarsene a casa a riposare con tutto quel pesce. E pensavo quanta puzza dovesse esserci nelle loro case, e per quanto il pesce mi piaceva consideravo che a fare i pescatori non ci si diverta granché con tutta quella puzza che non ti si toglie di dosso. E pensavo che non avrei mai potuto vivere tutta la mia vita nel puzzo di pesce, ma sarei stato bene in grado di farlo immerso nell’odore delle panelle.
Mamma posò la sua mano leggera sulle mie spalle, e con lo sguardo sorrise. Lei sì era felice. Non aveva mai sopportato quella città. E i suoi rumori, e l’incedere caotico del traffico, e il verde che non scatta mai, e le lambrette che ti s’infilano dentro il finestrino. E qualcuno che il finestrino te lo sfonda davvero se non sei amico del fruttivendolo all’angolo, se magari per risparmiare fai la spesa al centro commerciale e la frutta la compri lì e non da lui.
Mamma mal sopportava la città.
E la casa.
E l’ascensore sempre guasto con le borse della spesa da salire fin lassù, al quinto piano, senza che quel testa pelata di Mariano smuovesse un dito per lei. Mamma odiava il puzzo di fritto che rovinava le tende e gli abiti, diceva. E poi, il lavoro di papà che portava soltanto rogne. Mamma non amava la città come me, e sorrideva al nuovo cielo che copriva le nostre teste adesso, mentre una leggera brezza, resa eccessivamente fredda dall’altitudine, mi apriva i polmoni in un sano respiro.
Abbandonavo la metropoli per la montagna.
Quell’esperienza turistica non mi aveva reso realmente la nuova dimensione nella quale la mia piccola vita era stata incanalata dalla scelta di lavoro dei miei genitori.
(continua…)