“Cinque domande, uno stile” ospita Rosanna Rubino. Scrittrice, pubblica nel 2013 il suo primo romanzo “Tony Tormenta” (2013, Fanucci) cui seguono “Il sesto giorno” (2016, Fazi) e “331 metri al secondo” (2018, HarperCollins).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta a essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Le idee sono ovunque. Basta fare una passeggiata o vedere un film, anche solo la foto di un libro. Più che idee si presentano come suggestioni che rumoreggiano in testa, storie in potenza, spunti per un personaggio. In quei momenti provo fastidio, perché sono pensieri alieni che diventano chiasso impedendomi di concentrarmi su altro. Per me il vero tema dello scrivere non è mai stata l’ispirazione, quella non manca mai, ma la selezione, ovvero tra tutte le idee che mi vengono in mente capire quale sia quella giusta. E non è detto che quella giusta sia sempre la migliore, ma solo quella che più si presta a essere messa in opera sulla base delle mie capacità. Insomma, l’idea arriva, una possibile storia prende forma, e subito segue la domanda: sarò in grado di fare quello che mi sono messa in testa? Tra gli infiniti no, ogni tanto arriva anche qualche sì. Al fastidio subentra il sollievo. Sorrido e mi dico: ok cominciamo, risaliamo in giostra. A oggi mi sono detta 4 sì, e quei sì sono diventati i 4 romanzi che ho scritto.
Le idee sono ovunque. Basta fare una passeggiata o vedere un film, anche solo la foto di un libro. Più che idee si presentano come suggestioni che rumoreggiano in testa, storie in potenza, spunti per un personaggio. In quei momenti provo fastidio, perché sono pensieri alieni che diventano chiasso impedendomi di concentrarmi su altro. Per me il vero tema dello scrivere non è mai stata l’ispirazione, quella non manca mai, ma la selezione, ovvero tra tutte le idee che mi vengono in mente capire quale sia quella giusta. E non è detto che quella giusta sia sempre la migliore, ma solo quella che più si presta a essere messa in opera sulla base delle mie capacità. Insomma, l’idea arriva, una possibile storia prende forma, e subito segue la domanda: sarò in grado di fare quello che mi sono messa in testa? Tra gli infiniti no, ogni tanto arriva anche qualche sì. Al fastidio subentra il sollievo. Sorrido e mi dico: ok cominciamo, risaliamo in giostra. A oggi mi sono detta 4 sì, e quei sì sono diventati i 4 romanzi che ho scritto.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Nella scrittura non procedo con ordine cronologico, secondo la sequenza temporale della storia. Può capitare di scrivere prima la fine di un romanzo e poi l’inizio, poi buttare giù un pezzo centrale, poi tornare a scrivere un paragrafo finale. Vado avanti a seconda dello stato d’animo, sulla base di uno storyboard iniziale. E così non c’è mai una vera fine, torno e ritorno sui paragrafi all’infinito cambiando anche soltanto una parola o una virgola. In genere, continuo a modificare il testo anche dopo averlo consegnato all’editore. La fine arriva quando il libro viene dato alle stampe. A quel punto non posso farci più nulla, perché le parole sono fissate sulla carta, quindi la conclusione diventa sia evidente che necessaria.
Nella scrittura non procedo con ordine cronologico, secondo la sequenza temporale della storia. Può capitare di scrivere prima la fine di un romanzo e poi l’inizio, poi buttare giù un pezzo centrale, poi tornare a scrivere un paragrafo finale. Vado avanti a seconda dello stato d’animo, sulla base di uno storyboard iniziale. E così non c’è mai una vera fine, torno e ritorno sui paragrafi all’infinito cambiando anche soltanto una parola o una virgola. In genere, continuo a modificare il testo anche dopo averlo consegnato all’editore. La fine arriva quando il libro viene dato alle stampe. A quel punto non posso farci più nulla, perché le parole sono fissate sulla carta, quindi la conclusione diventa sia evidente che necessaria.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”
Intorno ai 30 anni, quando le idee erano così tante che il rumore era diventato disturbante. Mi sono messa a scrivere affinché le idee che mi continuavano a saltare in testa trovassero pace.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Lo stile è il riflesso della propria essenza. Lo stile sono io. Lo stile diventa vincolo nella misura in cui lo è il mio carattere o il mio modo di stare al mondo. Come il carattere, lo stile può subire evoluzioni nel tempo ma rimane immutato nella sua essenza. Io, Rosanna, scrivo così perché sono fatta così. Metto le parole una dietro l’altra in quel modo, con quel ritmo, perché quello è il modo in cui ragiono e sviluppo pensieri. Quanto più l’identità di un individuo è forte, tanto più il suo stile nella scrittura è riconoscibile. Lo stile è DNA, e non esiste nulla di più vincolante o liberatorio, tirannico, ineluttabile del proprio DNA, comunque sempre forza potente.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca a incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
A mio avviso, chi scrive lo fa per se stesso, mai per gli altri. Per la gran parte degli autori di narrativa la “società” non è un’entità da educare o salvare, ma un bizzarro laboratorio in cui fioriscono colture di comportamenti umani da osservare e con cui fare esperimenti tramite le proprie storie. Chi scrive non vuole salvare nessuno a parte se stesso. Si scrive per quietare il rumore di dentro usando -e rielaborando- quello che accade fuori. I bisogni sono interiori, le intenzioni ego riferite. In questo senso l’atto dello scrivere è narcisistico, ben poco altruistico. Poi a volte accade una cosa bella, che un libro venga letto da tante persone e se ne cominci a parlare in giro tanto che tutti dicono la loro, e allora sì che quel libro può diventare un gesto politico, a seconda della contemporaneità dei temi o della forza delle visioni espresse, ma nella maggior parte dei casi lo vedo come un effetto collaterale più che una missione di partenza.