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Sandro Campani

“Cinque domande, uno stile” ospita lo scrittore Sandro Campani. Autore, tra gli altri, del romanzo “Il giro del miele” (2017, Einaudi) e del recente “Alzarsi presto. Il libro dei funghi (e di mio fratello)” (2023, Einaudi).

(foto tratta dal profilo Fb di Sandro Campani)

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

Se si può isolare un momento del genere, direi di provare una sorta di fremito, di esaltazione, e immediatamente una paura già contenuta nell’esaltazione stessa: quella di non essere all’altezza di quell’idea. Di non essere adatto a svilupparla. E anche un’altra paura: non sarà che l’idea mi sta affascinando oltremisura in questo preciso momento, ma domani, come risvegliandomi da sogno o da una sbronza, rivelerà di non avere alcun valore?
C’è da dire che l’idea, per così dire, “completa”, si deposita nell’immaginario in modo molto graduale: perciò di questi salti, di queste esaltazioni momentanee, epifanie e delusioni, se ne vanno ad accumulare tante, prima che quest’idea possa dirsi pronta per diventare una storia. Anzi, “pronta per una storia”, l’idea sembra non esserlo nemmeno quando la storia sta per essere ultimata e mancano magari poche pagine. Insomma, procedo per accumuli e per tentativi.
Quello che è importante è riconoscere un’ossessione: se l’idea, buona o non buona che sia, anche passibile di essere cambiata, ha a che fare con qualcosa che persisterà nel mio immaginario per il tempo necessario a essere scritta. E in qualche modo questo deve essere qualcosa di duraturo, di ossessionante. Arriva un momento in cui l’immaginario che si è raggrumato attorno a un’ossessione ha bisogno della lingua per essere compiuto. E l’idea a quel punto si trasforma in funzione di quella struttura e di una lingua.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

Per me, credo, evidente. Per lo meno lo spero, e spero di aver acquisito le capacità per riconoscerlo.
Non scrivo in nome di un’urgenza creativa, o per “esprimere me stesso”, rapito da qualcosa che mi fa buttar giù le frasi di getto. Succede, a volte, e mi lascio trasportare; ma la cosa a cui tengo più di tutto è rendere giustizia al mondo che sto creando e raccontando, alla voce dei personaggi, alle sfumature dei caratteri umani, attraverso ogni aggettivo e ogni virgola che adopero. Non è che questo lavoro sia una necessità, ma nel momento in cui lo sto facendo ho l’imperativo di fare un lavoro ben fatto; quindi sì, direi che la fine è evidente.
Poi, quelli che mi piacciono e mi soddisfano sono quasi sempre finali aperti e ambigui.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

Scrivere è sempre stata un’attività che facevo volentieri e in cui mi divertivo: scrivendo filastrocche in rima da bambino, costruendo finti giornali con mia cugina alle elementari, completi di pubblicità e di articoli sulle partite dell’Inter; giornalini a fumetti, alle medie. Poesie da adolescente, ma anche i temi a scuola: è stata sempre una cosa che ho fatto con gusto. Eppure non ho mai pensato “Devo scrivere”.
Avevo fatto intorno ai diciott’anni qualche tentativo di roba lunga in prosa, pretenzioso e vacuo, come se aver letto Faulkner e Dylan Dog ti desse la presunzione di far tutto; poi è successo che, essendo molto interessato alla musica, in quegli anni, ed essendo un fan sfegatato dei Massimo Volume, nel 1999 ho frequentato un corso di scrittura: l’ho fatto perché era tenuto dal “cantante” e bassista, nonché compositore dei testi – che erano in realtà racconti fatti e finiti – dei Massimo Volume, Emidio Clementi. (Amore per i Massimo Volume che dura tutt’ora: sono quei casi rari in cui un gruppo, un artista, ti accompagnano in ogni fase della vita). Insomma, a venticinque anni ho frequentato questo corso di scrittura e lì, più che “Devo scrivere”, ho preso atto che scrivere aveva, nella mia vita e nelle mie giornate, un’importanza che non volevo trascurare.
I primi racconti che ho scritto con intenzione, e che poi ho pubblicato, li ho scritti durante quel corso.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Con il tempo sei in grado di riconoscere in te una certa andatura, un passo che si riflette nella punteggiatura; la predilezione per certe scelte lessicali e certe forme, per una certa musica della frase; una temperatura della tua pagina, come dice il mio amico (e bravo scrittore) Enrico Macioci. Riconoscere questi elementi può voler dire saperli dosare consapevolmente. Ma puoi acquisire anche una certa facilità nel farti il verso da solo, ed ecco che il tuo stile diventa maniera.
Ci sono autori che scrivono in modi molto diversi da libro a libro, che cambiano molti registri (lo stile va al di là anche dei registri). Per ora, io non sono di quelli.
Cerco di accorgermi e di assecondare le piccole variazioni, di capire come, ogni volta che affronto una storia diversa, questa richieda strutture diverse e possa farmi passare da punti diversi del mio stesso mondo, che magari avevo illuminato meno.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Penso che fare il narratore debba avere a che fare con la ricerca della verità e della profondità dello stare al mondo. Questo, per forza di cose, comporta una posizione rispetto alla società, persino se uno pretende di non averla. C’è comunque un modo in cui la si guarda, e non può essere neutro. Però appunto, è un modo di guardare, e un conseguente modo di tradurre in una qualità estetica quello che si guarda.
Il tempo della narrativa è un tempo lungo. Si cerca (ha senso? Lo si fa comunque) di produrre qualcosa che resti: e se qualcosa resta non sarà certo in base alla sua attinenza a un’idea, o al suo carattere dirompente riguardo a temi sociali, politici, di attualità, o cos’altro. Sarà in base alle sue qualità estetiche. Non c’è funzione pedagogica, politica o sociale che tenga. Un brutto libro con una buona causa rimane un brutto libro, e fa un cattivo servizio alla causa che intende servire; probabilmente la danneggia.
Un bel romanzo, una bella canzone, rimangono nel tempo in quanto belli. È la bellezza ciò che permette loro di durare nel tempo e incidere davvero.

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