Un letto disfatto, stanco di solitudine. E profumo di caffè. Un pianoforte elettrico muto, e libri a prender polvere, divorati troppo in fretta, nella paura di perderli da qualche parte. La scrivania, ricordo del nonno che mai ho conosciuto, a raccogliere oggetti e nascondere i tarli che rodono dentro, lentamente, come le viscere lacerano l’anima. Su una piccola mensola vezzosi compact disc che non apro da secoli, né ascolto ormai più.
Davanti al led lampeggiante di uno schermo che non sa parlare posso ancora scrivere parole. Talvolta ne peso la consistenza come fossero ingredienti di una ricetta da non poter sbagliare. Altre volte le getto lì, alla ventura, agli occhi di chi vorrà farne un uso migliore. Altre volte le spengo ed io con loro, mentre la tazza di caffè mi ricorda che in qualche modo c’è da stare svegli. Ed ascoltare le voci in giro, a cui dar voce scuotendo una tastiera che inizia a nascondere lettere. E lettere ne ho conservate tante nella memoria. Su questa sedia, con posture differenti, alla continua ricerca di un equilibrio stabile che so già di non poter raggiungere, ho trascorso notti di solitudini estreme, di gocce d’alcol evaporate in un respiro. Notti di numeri ripetuti e scritture da liberare, notte di lettere spedite a sé stessi per leggere di qualcuno che ha pensato a te. Notti di luna che da qualche parte c’è e silenziosa se ne sta per cazzi suoi senza che nessuno la chiami per nome, perché un nome non ha. Ho sfogliato vangeli alla ricerca di un segno e ho segnato sorrisi e tabacco ammaccato, e ho mentito a me stesso per ritrovarmi al mattino. E ho pensato, di fare e dire, e restarmene muto a guardare. Ho celato bestemmie dietro urla possenti. Ho pensato di cambiare le cose, le mie ché del mondo non so. In questa stanza confusa che accoglie mille spettri stanotte ho camminato a lungo, sul filo delle memorie, e le ho prese per mano, e strette al petto, ché nessuno potesse strapparle alla mente. E ho sognato perfino di essere vivo.