“Cinque domande, uno stile” ospita Silvia Cossu. Scrittrice e sceneggiatrice. Sue sono le sceneggiature dei lungometraggi “L’ospite” (1998, tratto dal suo romanzo “La vergogna”), “Fino a farti male” (2004), “Il sesso dopo i figli” (2015), “Io so che lo siete” (2020), tutti per la regia di Alessandro Colizzi. Come scrittrice, esordisce con il romanzo “La vergogna” (1999), cui seguono “L’abbraccio” (2006, Marsilio) fino al recente “Il confine” (2022, Neo Edizioni).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
L’idea in genere non arriva mai disgiunta dalle prime dieci, venti righe, cioè l’incipit del libro. Parte tutto da lì, da questo attacco scritto a mano sul primo pezzo di carta che trovo, buttato spesso giù in modo compulsivo, inseguendo il comporsi delle frasi, nel quale poi andando avanti ritroverò l’impronta profonda, la voce esatta dell’idea. E’ un passaggio che produce una tale carica nervosa che poi trascorro i due giorni seguenti a ricredermi, a mettere in dubbio gli appunti, con la delusione di chi ha preso un abbaglio, tanto più l’idea mi eccitava, tanto più ora devo demolirla, forse per abbassare la tensione che mi ha dominato fin lì. Di solito è il terzo giorno, se l’idea sopravvive a tutto questo, tornata la calma, che so che è quella giusta. In ogni caso quel o quei fogli mi accompagneranno fino alle battute finali. Strapparli e liberarmene è veramente l’ultima delle cose che faccio.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
La consapevolezza che è quella la frase che conclude il racconto è evidente. Anche qui è un processo immediato, vien fuori non so da dove, prescinde totalmente da un vaglio più razionale. Sebbene debba ammettere che alla luce delle prime battute quelle parole, o frasi conclusive, poi appaiano anche necessarie.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a sé stessa “devo scrivere?”
C’è stato un momento intorno ai ventidue anni, mentre leggevo “La croce buddista” di Tanizaki, che mi sono detta che avrei voluto “scrivere.” (O forse ho in qualche modo intuito che l’avrei fatto). Ma è un’ipotesi, una sollecitazione che è rimasta lì appesa per un paio di anni ancora. Poi conclusa la tesi di laurea in diritto una mattina, al risveglio, ho trascritto un sogno appena fatto, che si è trasformato poco dopo nell’incipit de “La vergogna.”
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Ho scritto cose molto diverse tra loro, e passo abitualmente dal romanzo alla sceneggiatura, che sono linguaggi lontanissimi. Quindi la risposta è no. Per quanto mi dicano che abbia uno stile (letterariamente) riconoscibile, non posso dire di averne una consapevolezza sufficiente da trasformarsi in vincolo.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Scrivere costituisce sempre un gesto politico, non perché si abbia quell’intento all’inizio del processo – ci si concentra essenzialmente sul come narrare quella storia – ma indubbiamente per i temi e il taglio con cui li si affronta. E’ politico il rapporto tra due persone quando uno dei due domina l’altro, è politico il tema dei soldi, della loro mancanza e della vulnerabilità di chi lavora, è politica la lotta fra i sessi quando c’è da occuparsi dei figli, così come è politica la pretesa di verità e giustizia della vittima di un reato. Chiaro che quando l’opera raggiunge un pubblico in un modo o nell’altro incide nella società, contribuendo ad anestetizzarla o risvegliandola, a seconda della forma che le si è data.