Simona Lo Iacono, magistrato e scrittrice è l’ospite di oggi.
Esordisce con il romanzo “Tu non dici parole” (2008, Perrone – vincitore del Premio Vittorini Opera Prima) cui seguono, tra gli altri “Effatà” (2013, vincitore del premio Premio Martoglio), “Le streghe di Lenzavacche” (2016, E/O) fino all’ultimo lavoro “L’albatro” (2019, Neri Pozza). Cura la rubrica “Letteratura è diritto, letteratura è vita” sul blog letterario “Letteratitudine” di Massimo Maugeri.
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Accade sempre per uno “scandalo”. In ebraico,”scandalo”, vuol dire “pietra d’inciampo”. E le storie, le visioni, le suggestioni accadono così. Come un sasso inopportuno, che frappone il passo. Come un impedimento che costringe a fermarsi. A interrogarsi. A dare ascolto. Le migliori idee sono quelle che ti interpellano a un modo diverso di intendere la tua esperienza. Nascono come risposta a una specie di provocazione provvidenziale. Poi si sviluppano, assorbono le contingenze della vita, trasformano la quotidianità. Fino a che quello che sembrava uno scandalo si trasforma in un tragitto, e poi in un pellegrinaggio, e poi in un viaggio, tanto più riuscito quanto maggiormente affonda dentro di te. Si prova quindi la sensazione di essersi trovati, dopo essersi cercati.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
La parola per me è sempre necessaria, anzi è proprio l’origine delle cose. Delle conclusioni e degli inizi. Della caduta e della rinascita. Della perdita e della conquista. A volte le parole sono un approdo. Altre un inizio. Ma, sempre, orientano, aiutano la realtà ad avverarsi. Richiamano all’ordine il senso dell’eterno.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”
Sì, ero piccolissima, avevo solo 5 anni e ho capito con lucidità e tenerezza che dovevo scrivere, sebbene sapessi farlo appena. Ero solo in prima elementare. Allora mi chiusi in un armadio, perché sentivo che un atto come quello della scrittura, così intimo e definitivo, esigeva qualcosa che mi contenesse. Da allora, l’idea del guscio in cui rinchiudersi per narrare è rimasta una costante. Mille altre volte, dopo quel momento, mi sono detta “devo scrivere”, con urgenza e con disperazione. Ma mai come allora la mia parola è stata nuda e innocente, appena nata, perché rivelata per la prima volta.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Per me lo stile è uno strumento, che deve adattarsi alla storia. Non è mai un vincolo. Anche perché non tutte le storie possono essere raccontate nello stesso modo. Anzi, ogni storia ha la sua voce unica, il suo timbro e la sua personalità. Ed è bellissimo scoprire queste voci, dar loro spazio, farsi abitare da esse e poi rimandarle all’esterno, come se lo scrittore fosse un segretario di fantasmi riuniti in cerchio attorno a lui. Si ha sempre l’idea di una scoperta, di un viaggio dissimile ad ogni altro. Per me in letteratura si deve ricominciare sempre da capo, diventare eterni principianti.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Incide perché niente come la letteratura ci fa entrare nell’altro, nella sua storia, nella sua dimensione interiore. Niente come la letteratura ci educa alla pietà umana, proprio perché – facendoci fare un viaggio all’interno di un’altra realtà, di un altro tempo, di un altro cuore – ci insegna a non cedere all’apparenza, a non giudicare, a non scandagliare con superficialità l’anima di altro uomo. Questo processo di consapevolezza e direi quasi di carità, è altamente politico, nel seno greco della parola “politica”, che deriva dall’aggettivo greco, a sua volta derivato da, città. Era il termine in uso per designare ciò che appartiene alla dimensione della vita comune, e quindi alla relazione tra uomini. Entrando nella storia di un altro, indossandola come un cappotto, facendola propria attraverso la letteratura, cresciamo nella nostra capacità di approccio e di impegno, di fraternità e di condivisione. Mi piace pensare che la letteratura inneschi la più potente delle rivoluzioni: il cambiamento di se stessi.