Sembravano perle, ma non erano che gocce di sudore. A fatica scivolavano lungo la schiena invecchiata dai giorni impietosi, che pesanti s’erano adagiati su di lui senza chiedere permesso, come accade per la polvere che in silenzio copre i ricordi, i rimorsi e talvolta il dolore.
In quel preciso istante, un istante troppo simile a quello trascorso in un’intera vita, serrava i pugni e stringeva i denti, proprio come gli era sempre stato detto, così come la madre, il padre e i fratelli maggiori gli avevano fatto vedere da quando i suoi occhi avevano preso luce e coscienza.
Era giunto al mondo in ritardo, che nessuno credeva fosse possibile. La madre bianca nel viso e negli occhi, stanca e tirate la mani sul grembo pensava a filare, e non credeva possibile che potesse amare ancora. Ma la tempesta spazza via i campi e il lavoro s’arresta, e la fatica del giorno si riversa dentro cosce e lenzuola, e la forza dell’uomo dura un misero istante, che si perde in un rantolo muto ma conduce alla vita. Era in piena tempesta che il padre lasciò un altro ricordo di sè, un ricordo giunto a scombussolare le notti di una stanza ammuffita dalla povertà, dimentica da tempo del suono dei vagiti, del profumo della pelle candida, del silenzio di uno sguardo fresco di paradiso, che ancora poco si abitua alla luce dell’inferno.
Era arrivato per caso, come spesso accade, e nell’inferno s’era presto calato.
Cresciuto a quel modo, insinuato in esistenze dai ritmi ben scanditi, piegate dalla fatica, calpestate quotidianamente dalla voce del padrone, dal campo d’arare, dalla semina, e dal raccolto che passava di mano in mano senza lasciare traccia,
in quell’inferno era stato lesto a ricavarsi il suo misero spazio. Teso sull’esile corporatura, pronto a combattere, a contrastare gli eventi.
Così aveva appreso dal vecchio in fondo alla strada, così la donna china sulle ginocchia a rammendare vestiti narrava sul far della sera. E talvolta cantava a scandire i giorni di afa, quando il sole dall’alto picchia gli inermi senza alcuna pietà. Cantava a denti stretti che la foga non giungesse alle orecchie dei capi, dalle mani pesanti, dalle parole sprezzanti. Ma la voce era forte e vagava distante, camminò oltre i campi e risalì la collina per andare a morire dentro orecchie rapprese da bestemmie e rancore. Lo picchiarono in dieci o forse ancora di più, a spezzargli le ossa, a ridurne il cammino. Non serviva a nessuno, né campi, né funi, né raccolto da prendere. Cacciato di casa senza alcuna ragione, senza nemmeno una casa da tener nella mente, una stanza e un dolore, e negli occhi lo sguardo di una madre che muore. Lento e dimesso finì per la strada e la polvere cheta si posò sulle spalle. Chiamato Rigoletto senza capirne il perché, e di stamberga in caserma finì per cantare. Ma il denaro era poco e la gente chiedeva di più. E piegò le ginocchia e chiudendo i suoi occhi vendette per poco tutto quello che aveva. Gli chiedevano tutto e diceva di sì.
Sembravano perle, ma non erano che gocce di sudore. Serrava i pugni e stringeva i denti, mentre il buio risaliva a coprire la sua ombra. La fune cedeva il passo, la vita scivolava verso l’acqua gelida che come a destarlo dal torpore di un’esistenza vissuta in direzione ostinata e contraria lo pizzicava ai talloni.
Sembravano perle, ma non erano che gocce di sudore ben presto confuse negli spruzzi del mare, che saziò la sete accogliendolo nell’antro della notte. Lasciò la presa e voltando le spalle vide la vide la madre perduta nel tempo. Un attimo di quiete e ricambiò il sorriso.