Ospite di oggi di “Cinque domande, uno stile” è Stefano Massaron. Scrittore eclettico, traduttore (tra gli altri voce italiana di Jeffery Deaver, Joe R. Lansdale e Jonathan Coe). Amante dell’horror e del thriller, ma al contempo autore di storie per un pubblico di ragazzi (Doppio Clic, Walt Disney – Premio Selezione Bancarellino 2001), ha esordito nel 1991 sotto pseudonimo (Steven H. Farmer, con La prole Immonda, Eden Edizioni). Nel 1994 si riappropria del suo nome e pubblica la raccolta di racconti “Lezioni notturne” (Granata press), cui seguono, fra i tanti, “Gioventù cannibale” (1996, Einaudi), Graffiti (1998, ADNKronos) e Ruggine (2005, Einaudi).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Vivo per quella sensazione. Ma spesso non ce ne si accorge. Spesso sembra una banalità, ma poi diventa un tarlo, che non se ne va, che continua a rimanerti nel cervello. E, quasi senza volerlo, lo elabori. Io non scrivo mai le idee che mi vengono. Ho imparato con il tempo che, se lasciate a “macerare”, il cervello da solo, senza aiuto, provvede a eliminare le idee che non valgono nulla, quelle che non sono in grado di reggere una storia.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Evidente. Non è necessaria, perché un finale si può sempre riscrivere e rivedere. Ma, quando ce l’hai, quella parola, quella che conclude, lo sai. Non puoi non saperlo.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
Sì. E’ arrivato tardi. Non ho cominciato a narrare alle elementari, come sento dire da molti. Avevo diciannove anni. I romanzi che mi piaceva leggere in Italia non venivano pubblicati. So che è presuntuoso (ma d’altra parte per essere uno scrittore bisogna essere presuntuosi, altrimenti come si può pensare che a tutti interessi quello che abbiamo da dire?) ma la molla che mi ha spinto a iniziare a scrivere è stata la consapevolezza che, se volevo leggere qualcosa che mi piacesse davvero tanto, avrei fatto meglio (e prima) a scrivermelo da solo.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Assolutamente sì. Ci sono tantissimi scrittori che sono invischiati inestricabilmente nelle loro modalità stilistiche. Un vero peccato. Prima viene la storia, e prima ancora vengono i personaggi. Lo stile è qualcosa che avvolge il tutto. Uno degli errori più gravi dei lettori e dei critici italiani è l’eccessiva attenzione allo stile. Mi permetto di citare Stephen King: “Un romanzo senza storia è un romanzo senza motore, non importa quanto bene può essere scritto. E’ come una Rolls Royce senza motore: non va da nessuna parte. Senza motore, ti ritrovi in garage un lussuosissimo vaso di begonie.”
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Purtroppo in nessun modo. La letteratura sta morendo, soffocata dagli influencer e dagli youtuber (che, incidentalmente, sembra siano gli unici a voler davvero essere pubblicati dalle grandi case editrici), quindi no, ha smesso di incidere sulla società. Lo scrivere come gesto politico, invece, può ancora esistere… ma purtroppo stiamo parlando di un pubblico troppo esiguo perché abbia un qualsiasi effetto su una scala che sia percepibile anche al di fuori delle ristrette “cerchie” di appassionati su Anobii o su Facebook, che si fanno i loro blog e le loro pagine in cui parlano di libri, ma numericamente sono irrilevanti… non sai quanto questa cosa mi dispiaccia, ma è così.