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Tag: blues

Da "Suonavamo Bene"


Era invece tempo di andare.
Tutti e cinque stipati in quel trabiccolo, ritrovato della tecnologia meccanica con una serie infinita di chilometri sulle spalle, sulle ruote, dipinti sulla carrozzeria, pronti a passare il colore di un viaggio sulla nostra pelle. Poche autostrade allora, poche adesso, il viaggio interminabile. Quel viaggio che almeno una volta nella vita è necessario intraprendere per sentire la brezza di un’aria diversa accarezzare i nostri capelli, e fanculo se capelli non avete più sulla testa, fateveli prestare, indossate un parrucca, qualcosa che si possa spettinare, qualcosa che possiate dire d’aver perso lungo il cammino.
Perché questo accade durante il viaggio, perdi qualcosa per ritrovarti.
La traiettoria di un viaggio da comprimere nelle memoria come una curva immaginaria di cui trattieni il capo e la fine, pur sapendo che tutto ciò che ci sta dentro non riuscirai a gestirlo per quel che è stato, neppure nel ricordo di una seduta ipnotica. L’hai perduto quell’insieme di punti, per ritrovarti al punto in cui te ne stai adesso a ricordare, o forse a vivere.

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Invitation to the blues


La pioggia scendeva fitta e lieve sulla strada. Goccia a goccia estenuante ritmo della natura, in un concerto che il caos metropolitano non permette di ascoltare. L’assenza del vento la faceva cadere dritta sulla faccia, la sua. Camminava incurante, senza ombrello, nè altro tipo d’indumento che potesse metterlo al riparo dal piscio del cielo. Camminava mentre la gente lo scrutava con occhi sospettosi.
Il correttore di bozze continuava nel suo andare, e se qualcuno avesse potuto mirarlo da vicino sarebbe rimasto ancora più di stucco. Camminava nella pioggia e a ogni passo ne seguiva il ritmo. Camminava e abbozzava un sorriso, come in preda ad una crisi isterica.
Così dava l’impressione fosse.
Così non era.
Poteva dirsi felice, in qualche modo.
O pieno di soldi. Era stata una giornata di grazia.
Considerava che mai negli ultimi anni s’era ritrovato in tasca tutto quel denaro. E a pensarci bene non è che nel corso della vita, almeno fino ad allora, fosse stato avvezzo a maneggiarne.

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E di questo nessuno parla


Le solite cazzate, c’era da immaginarselo. Dissoluta, distillata, evaporata nella notte, come una goccia d’alcol.
Il tabù d’un numero difficile da oltrepassare e bla bla bla, pagine e pagine vergate d’inchiostro nero, corvino, luttuoso, come il colore dei miei capelli. Anche questo m’è capitato di leggere stamani.
La costruzione di un dolore, quotidiano, che t’insegue, mentre vorresti spegnere tutto attorno a te, di questo nessuno parla.
Io sono morta. Lo dicono i giornali, lo grida la gente, e qualcuno piange pure. Sono morta, ma non ieri. Di questo nessuno parla, nè urla, ma tace.

Che tipo eccentrico quella lì, null’altro di diverso sapevano dire. Bella voce, particolare, un modo di graffiare l’anima. Sì, in qualche modo quello scricciolo di donna ti viene dentro, e lì si ferma più di un istante. Il tempo necessario per lasciarti qualcosa a covare. Nel bene e nel male. Non c’è frivolezza nel suo incedere. E’ lento, pesante, fastidioso talvolta, ma rimane dentro. Forse ne facciamo un simbolo del soul, è da qualche anno che non produciamo qualcosa di scoppiettante. Quel tipino lì, con le gambe storte e barcollanti, e quello sguardo che a incontrarlo per strada non noteresti neppure, quel tipo lì, diciamo ha un non so che. Un non so che ci può far tirar su un bel gruzzolo. Le labbra, sì, il modo in cui le stringe, e quando parla, e canta. Dà la sensazione di esser pronta a far l’amore in ogni sospiro. Punterei su di lei, nuova regina del soul. Il trono è vacante del resto. Ma dobbiamo costruirle attorno qualcosa di significativo. Che se ne parli, ad ogni modo. Forse sarebbe meglio farla finire dritta dritta in gattabuia.

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Le mie dita tremano, è freddo tutt’intorno


Sputo fuori da questa finestra. Sputo fuori tutto al mondo.
Ho dato fuoco alle mie speranze, ne ho attizzato altre. Molte se ne sono ritornate a casa, senza fiato, arrancanti, distorte.
Altre hanno perso i loro passi per la strada. Altre, be’ altre non so che fine abbiano fatto. Forse mi inseguono ancora.
Delle mie non resta molto. Ho la gola satura, e il respiro in affanno, e freddo tutt’intorno.
Mi guardo indietro, oltre le spalle. Il collo mi duole così come i muscoli tesi dal tempo passato. Riesco a stento a voltarmi, a guardare nel passato e non ho chiara visione di quello che è stato, una sorta di nebbiolina fitta s’insinua tra me e i ricordi.
Le mie dita tremano, è freddo tutt’intorno.
Le mie dita tremano, perchè non sanno più viaggiare lungo fili metallici bollenti. Ne abbiam fatte di cose insieme, scivolando lungo il sudore di nottate estenuanti che non finivano all’alba, ma andavano oltre. Ne abbiam fatte di cose, le mie dita e loro. Esili come le idee che ci portavamo dietro, fragili come le gambe che tenevano a stento le nostre vite su, dure come le sere trascorse all’addiaccio, suonando blues.
Ho ancora qualche blues nella mente, di quelli facili da far girare tra le orecchie della gente, ma così penetranti che una paura fottuta mi prende al solo pensiero d’averceli dentro. Al pensiero di quella musica che leggera s’alza oltre le nostre teste e ci lascia stremati a terra, come in un orgasmo che sai ti fiaccherà per una notte intera. E pur sapendolo, pur sapendo bene che non potrai issarti oltre il tuo limite ti lasci andare, e quel suono s’infila dritto dritto fin dentro l’anima, e ti fotte.
Chè un’anima ce l’ho.

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Un blues randagio


Ogni volta che sto per attraversare la strada penso a lui. A tutti gli anni trascorsi insieme, alle folli corse ad inseguire il vento, alle giornate in cui con lo sguardo radente terra provavamo a risollevare i nostri passi alla ricerca di qualcosa da mettere in pancia che potesse darci la forza per andare avanti. Ogni volta che piego la testa per scorgere il via libera ad un incrocio la sua immagine si posa sui miei occhi, poi come una lacrima cade. Fosse anche per un istante ma tutto questo avviene, e mi rattristo. Non vi nascondo che nel corso di una giornata m’accade spesso di passare da una sponda all’altra della strada, e non di rado guardo oltre il mio fianco, dove non ho ancora perso l’abitudine di ritrovarlo.
Lì, davanti a me.
Sopratutto nelle giornate di pioggia dove tutto diventa più difficile, in quelle giornate di tempesta in cui il vento solleva la polvere e la mescola all’acqua e disegna traiettorie di fango e luci che sbarrano il cammino, il ricordo di lui viene forte come il rombo di tuono che squarcia il silenzio delle lunghe notti di gelo.

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E mi rivedo bambino dentro scarpe sfondate

Non c’è sentore di natale in questa stanza. Ne ho trascorsi di diversi in vita mia, forse troppi da qualche parte potrebbero dire. Troppi di natali vissuti in giro per il mondo, volta dopo volta lontano dal posto che in qualche modo avrei potuto chiamare casa. Troppi e tanti vissuti in malomodo, ma a ciascuno riesco ancora nella memoria ad assegnare un sapore, un gusto preciso.
Qui dentro no.
Non c’è sentore di natale in questa stanza, eppure natale è. Lo dicono alla tele, si sente l’eco lontano di qualche cherubino che intona il tipico canto, ma non scorgo lume di candele rosse a segnare il cammino, né tavole imbandite a festa. Mi sono ritrovato spesso seduto presso tavole riccamente assortite dei più pregiati ritrovati culinari che non vedo più intorno. E in questo letto d’ospedale non riesco a scrollarmi di dosso l’infanzia e il gusto delle piccole modeste razioni di un cibo da condividere nella sacralità della famiglia, quella famiglia che non ho mai avuto.
Adesso avverto solamente la pesantezza del mio respiro.
E socchiudo gli occhi.

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Eleonor e le gardenie

Ed eccomi nuovamente qui. Ancora una volta. Mai abbastanza. Per quanto si possa dire mai più, non avrai la certezza di chiudere. Di darci un taglio. Di voltare pagina una buona volta. Non è così che vanno le cose quando ti ritrovi a dipendere. Accade con le persone, con i ricordi, con quello che ci ostiniamo in maniera patetica a chiamare emozioni. Con la roba. Non è come quando al mattino ti alzi e dici mi va di farmi un toast, ed ecco bell’e pronto in pochi minuti, o magari dici preferisco sorbirmi un bel caffèlatte, pentolino sul fuoco latte quanto basta e un goccio di caffè memoria dell’altro ieri. Sul fuoco ti ritrovi tu, e poco per restare memoria. Non è così semplice, non lo è affatto.

Smettere.

Ché in fin dei conti tu pensi di farlo, e ci riesci anche. Giorni, settimane, mesi. Perfino anni, e poi d’improvviso, come un temporale ad agosto rieccoti lì. In una surreale e grottesca questua. Racimoli ogni spicciolo, ti frughi lungo le tasche del nuovo cappotto alla moda che hai trovato nel tuo già ricco guardaroba e via. Poi finisci di cercare spiccioli, ché sai di non averne più. Ed inizi ad elemosinare tra la gente che ti circonda, chiedendo a quelli che pensi ti possano voler bene.

A quelli che t’amano.

E talvolta nei rari momenti di lucidità, quando sei presente a te stessa, finisci per chiederti stupidamente come una bimba di fronte l’esistenza di babbo natale, ma m’amano davvero? Tutti in fila, davvero m’amano? E poi, con un sorrisetto che non saprei definire concludi che sì. T’amano. T’amano fino a tal punto da fornirti da sé di roba. Ti riempiono come un tacchino farcito e tu sei bell’e contenta. Fino alla prossima dose. Io ho smesso, e poi ripreso. Adesso sono qui. Con la profonda convinzione di sapere che è l’ultima volta. L’ultima volta che ci casco. Ma anche prima, prima che finissi in questa lettiga d’ospedale m’ero ripromessa la stessa cosa. Le mie promesse non valgono granché, me ne rendo conto. Mento a me stessa, anche quando non ce ne sarebbe di bisogno.

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You gotta pay the dues, if you wanna sing the Blues



Andavamo in giro per gli stati. Talvolta ci scambiavano per zingari in viaggio. Come piccole carovane multicolori e strombazzanti passavamo per i centri delle cittadine incitando la gente a uscirsene fuori dalle abitazioni misere. Erano periodi di miseria in cui tutto sembrava piegarci le ossa verso la polvere delle strade. Pochi vestiti ad addobbare molte anime in pena, senza un lavoro certo, senza una paga certa per far fronte a certi debiti, senza un vita certa per far fronte a certi peccati.

Andavamo in giro per gli stati, ed era un bel viaggiare.

Carovane di musicisti, mai sempre gli stessi. C’era sempre qualcuno che abbandonava lungo il viaggio. E dava il bel servito. Magari aveva in qualche ospedale sperduto del profondo sud la moglie sofferente di doglie, magari aveva ricevuto un offerta migliore, una scrittura in qualche orchestra di rilievo, magari aveva finito i soldi per la roba e senza non era nemmeno capace di dare un passo, magari aveva litigato con qualcuno e mandato a fanculo il resto.
C’era sempre qualcuno che abbandonava il viaggio, come se morisse in quel nostro cammino comune.

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