L’incipit di “Cent’anni di solitudine” è, e rimarrà, uno dei più felici esordi della storia letteraria dell’umana razza, per quanto ancora l’umana razza saprà resistere…
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Si ritrovò tra le mani un vecchio programma di sala, ingiallito, mal piegato e macchiato dalle gocce del tempo. Lo scrutava immergendosi nel ricordo, sapendo bene cosa significasse. Erano già trascorsi vent’anni da quello spettacolo. E quel foglietto che manteneva ai suoi occhi una certa eleganza era rimasto muto e in silenzio tra le sue memorie. Celato tra le pagine di uno dei libri più cari. Uno di quelli che i pochi ospiti graditi al piccolo monolocale avrebbero di certo incontrato, calpestato, spostato dal ripiano della cucina, o tolto dal tavolo insieme a qualche cicchetto di whisky lasciato evaporare. Forse quel volume, dalle parole sgualcite perché troppe volte ricercate, poteva dirsi il suo romanzo preferito. O forse no, chè non era in lui la volontà di definirlo tale o classificarlo in relazione ad altri, di certo era un grande amore, ancora vivo. E in quel viaggio tra le carte che tutto avevano detto prima che il mondo si sbriciolasse davanti agli occhi del lettore, il correttore di bozze s’era spesso perduto, più d’altre occasioni. Fin dalle prime volte che, come in una passione furiosa, aveva scoperto il vizio della letteratura, e non se n’era più distaccato. Peggio della bottiglia, del blues, di Beethoven. Più viziato dalle parole che dalla vita, più lascivo e perduto nelle vicende romanzate che nel calore fuggevole di una fica a poco prezzo. Avrebbe voluto conoscere il viaggiatore di quella storia, lo zingaro che più d’ogni altro personaggio incontrato fino ad allora l’aveva affascinato. Soggiogato anche. S’era spesso chiesto da dove provenisse, e in che luogo avesse ritrovato quelle carte che tutto dicevano.
E poi il nome. Melquiades. E l’idea che s’era fatto.