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Tag: Jimi hendrix

Da "Suonavamo Bene"


Era invece tempo di andare.
Tutti e cinque stipati in quel trabiccolo, ritrovato della tecnologia meccanica con una serie infinita di chilometri sulle spalle, sulle ruote, dipinti sulla carrozzeria, pronti a passare il colore di un viaggio sulla nostra pelle. Poche autostrade allora, poche adesso, il viaggio interminabile. Quel viaggio che almeno una volta nella vita è necessario intraprendere per sentire la brezza di un’aria diversa accarezzare i nostri capelli, e fanculo se capelli non avete più sulla testa, fateveli prestare, indossate un parrucca, qualcosa che si possa spettinare, qualcosa che possiate dire d’aver perso lungo il cammino.
Perché questo accade durante il viaggio, perdi qualcosa per ritrovarti.
La traiettoria di un viaggio da comprimere nelle memoria come una curva immaginaria di cui trattieni il capo e la fine, pur sapendo che tutto ciò che ci sta dentro non riuscirai a gestirlo per quel che è stato, neppure nel ricordo di una seduta ipnotica. L’hai perduto quell’insieme di punti, per ritrovarti al punto in cui te ne stai adesso a ricordare, o forse a vivere.

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Le mie dita tremano, è freddo tutt’intorno


Sputo fuori da questa finestra. Sputo fuori tutto al mondo.
Ho dato fuoco alle mie speranze, ne ho attizzato altre. Molte se ne sono ritornate a casa, senza fiato, arrancanti, distorte.
Altre hanno perso i loro passi per la strada. Altre, be’ altre non so che fine abbiano fatto. Forse mi inseguono ancora.
Delle mie non resta molto. Ho la gola satura, e il respiro in affanno, e freddo tutt’intorno.
Mi guardo indietro, oltre le spalle. Il collo mi duole così come i muscoli tesi dal tempo passato. Riesco a stento a voltarmi, a guardare nel passato e non ho chiara visione di quello che è stato, una sorta di nebbiolina fitta s’insinua tra me e i ricordi.
Le mie dita tremano, è freddo tutt’intorno.
Le mie dita tremano, perchè non sanno più viaggiare lungo fili metallici bollenti. Ne abbiam fatte di cose insieme, scivolando lungo il sudore di nottate estenuanti che non finivano all’alba, ma andavano oltre. Ne abbiam fatte di cose, le mie dita e loro. Esili come le idee che ci portavamo dietro, fragili come le gambe che tenevano a stento le nostre vite su, dure come le sere trascorse all’addiaccio, suonando blues.
Ho ancora qualche blues nella mente, di quelli facili da far girare tra le orecchie della gente, ma così penetranti che una paura fottuta mi prende al solo pensiero d’averceli dentro. Al pensiero di quella musica che leggera s’alza oltre le nostre teste e ci lascia stremati a terra, come in un orgasmo che sai ti fiaccherà per una notte intera. E pur sapendolo, pur sapendo bene che non potrai issarti oltre il tuo limite ti lasci andare, e quel suono s’infila dritto dritto fin dentro l’anima, e ti fotte.
Chè un’anima ce l’ho.

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