I miei hanno provato in tutti modi, ma alla fine ho deciso io. La scuola m’era sempre venuta stretta, come un vestito che ti trattiene nei movimenti e li lega, e frena ogni libertà senza neppure coprirti in maniera confortevole. Certe volte hai la sensazione che ti venga a mancare l’aria, e arranchi nel vestito, e provi e riprovi ad allargare il colletto, soltanto dopo ti accorgi di non averlo, di non averlo mai avuto, forse, e il panico ti prende, perché non riesci a capire cosa stia a stringerti forte il collo. Credo sia il disagio, una presa invisibile che non ha colore né profumo, ma soffoca. Il disagio di una vita non tua che si ostinano a farti calzare.
Non appena ho potuto me ne sono uscito fuori.
Ho fatto un po’ di lavoretti in giro per la città, sono stato a zonzo, uno sbandato per molti, uno dei tanti in città. Faccendiere oggi, meccanico altre volte, perfino panettiere per qualche notte, ma gli orari, quelli lì, non riuscivo a mandarli giù, sebbene il gusto del pane appena sfornato sia una delle cose per cui vale la pena vivere in questa fogna.
Poi, ho camminato, e ho camminato parecchio per le strade di questa città, col pallino della lettura. Questo sì, m’è rimasto degli anni di scuola, tanto che mia madre me lo rimprovera ancora oggi. Su quei libri, sconci mi diceva, aveva scorto un po’ di Bukowski tra le mie carte, ne hai perduto di tempo, quando avresti potuto metterti davanti dei buoni manuali di legge e diventare migliore. Migliore forse di quello che sono, differente, ma non ho controprova, né mai ne avrà mia madre. Deve prendermi per quel che sono, e ogni santa domenica lo fa. Il pranzo concessoci dal buon dio è qualcosa cui non si può sfuggire, la scuola magari sì, ma la domenica, la domenica è sacra. E lì con mio padre a scherzare, con la malinconia nello sguardo, a ricordare di quello che ero, ragazzetto irrequieto, sgusciante per i vicoli malfamati, per i quartieri che pochi osavano sfiorare, ed io invece lì, dentro.
Conoscitore e conosciuto.