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Tag: soul

Alla fine


Alla fine hanno hanno chiamato la puttanella. Di certo più adatta al contesto, senza ombra di dubbio. Con occhietti e forme da pin-up, avrà la scena tutta per sé. Hanno scelto la giovane emergente, a discapito della mia decrepita vecchiaia, che sei condannata a vedere ogni giorno, mia cara. L’hanno scelta bene, niente da dire. Luccicante, pronta a raccogliere le luci dei fotografi di tutto il mondo. Lì, schierati come un plotone d’esecuzione, in fremente attesa, magari di un passo falso, una caduta, uno scivolone dei regnanti senza corona che s’accingono a debuttare. Loro, in formazione d’attacco, pronti a colpire con proiettili fulminanti, che catturano il momento, s’illudono di farlo. Stanno impalati, anche per ore, puntando, rigidi sulle gambette, in attesa. Di un qualcosa che vada storto. Perché le grandi notizie nascono da lì, lo sappiamo, dai guai. Mai che uno scoop memorabile sia venuto fuori dalle bellezze del mondo, non lo ricordo, e non penso di sbagliarmi, magari, chissà, forse, come tutto. Che dirti? Sono caduta in errore molte volte e per questo non ho mai pensato di far la morale a nessuno, né di mettermi ritta in piedi, ferma sui miei saldi principi, a predicare. Il vento avrebbe sorriso delle mie parole, ne sono certa, si sarebbe impettito sugli alberi, sfrondandoli del superfluo, di tutto quel superfluo che le mie parole avrebbero caricato per la strada, la mia. Ho semplicemente provato a viverla questa donnaccia d’esistenza, che molto promette e poco concede, e ho cantato una manciata di blues, e senza ombra di smentita, non amo le false modestie, ecco, posso affermare che qualcuno di questi m’è uscito fuori veramente bene, sfido a farlo meglio di me, a cantarlo, dico, a viverlo, forse. Ho scelto mia cara, e sbagliato. Ma in una vita degna d’esser chiamata tale, in una vita vissuta, come dico io, è necessario sbagliare. La misura dell’errore ti da la grandezza della scelta, e poco male che le cose vadano a puttane, ne siamo

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E di questo nessuno parla


Le solite cazzate, c’era da immaginarselo. Dissoluta, distillata, evaporata nella notte, come una goccia d’alcol.
Il tabù d’un numero difficile da oltrepassare e bla bla bla, pagine e pagine vergate d’inchiostro nero, corvino, luttuoso, come il colore dei miei capelli. Anche questo m’è capitato di leggere stamani.
La costruzione di un dolore, quotidiano, che t’insegue, mentre vorresti spegnere tutto attorno a te, di questo nessuno parla.
Io sono morta. Lo dicono i giornali, lo grida la gente, e qualcuno piange pure. Sono morta, ma non ieri. Di questo nessuno parla, nè urla, ma tace.

Che tipo eccentrico quella lì, null’altro di diverso sapevano dire. Bella voce, particolare, un modo di graffiare l’anima. Sì, in qualche modo quello scricciolo di donna ti viene dentro, e lì si ferma più di un istante. Il tempo necessario per lasciarti qualcosa a covare. Nel bene e nel male. Non c’è frivolezza nel suo incedere. E’ lento, pesante, fastidioso talvolta, ma rimane dentro. Forse ne facciamo un simbolo del soul, è da qualche anno che non produciamo qualcosa di scoppiettante. Quel tipino lì, con le gambe storte e barcollanti, e quello sguardo che a incontrarlo per strada non noteresti neppure, quel tipo lì, diciamo ha un non so che. Un non so che ci può far tirar su un bel gruzzolo. Le labbra, sì, il modo in cui le stringe, e quando parla, e canta. Dà la sensazione di esser pronta a far l’amore in ogni sospiro. Punterei su di lei, nuova regina del soul. Il trono è vacante del resto. Ma dobbiamo costruirle attorno qualcosa di significativo. Che se ne parli, ad ogni modo. Forse sarebbe meglio farla finire dritta dritta in gattabuia.

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E mi rivedo bambino dentro scarpe sfondate

Non c’è sentore di natale in questa stanza. Ne ho trascorsi di diversi in vita mia, forse troppi da qualche parte potrebbero dire. Troppi di natali vissuti in giro per il mondo, volta dopo volta lontano dal posto che in qualche modo avrei potuto chiamare casa. Troppi e tanti vissuti in malomodo, ma a ciascuno riesco ancora nella memoria ad assegnare un sapore, un gusto preciso.
Qui dentro no.
Non c’è sentore di natale in questa stanza, eppure natale è. Lo dicono alla tele, si sente l’eco lontano di qualche cherubino che intona il tipico canto, ma non scorgo lume di candele rosse a segnare il cammino, né tavole imbandite a festa. Mi sono ritrovato spesso seduto presso tavole riccamente assortite dei più pregiati ritrovati culinari che non vedo più intorno. E in questo letto d’ospedale non riesco a scrollarmi di dosso l’infanzia e il gusto delle piccole modeste razioni di un cibo da condividere nella sacralità della famiglia, quella famiglia che non ho mai avuto.
Adesso avverto solamente la pesantezza del mio respiro.
E socchiudo gli occhi.

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