Alla fine hanno hanno chiamato la puttanella. Di certo più adatta al contesto, senza ombra di dubbio. Con occhietti e forme da pin-up, avrà la scena tutta per sé. Hanno scelto la giovane emergente, a discapito della mia decrepita vecchiaia, che sei condannata a vedere ogni giorno, mia cara. L’hanno scelta bene, niente da dire. Luccicante, pronta a raccogliere le luci dei fotografi di tutto il mondo. Lì, schierati come un plotone d’esecuzione, in fremente attesa, magari di un passo falso, una caduta, uno scivolone dei regnanti senza corona che s’accingono a debuttare. Loro, in formazione d’attacco, pronti a colpire con proiettili fulminanti, che catturano il momento, s’illudono di farlo. Stanno impalati, anche per ore, puntando, rigidi sulle gambette, in attesa. Di un qualcosa che vada storto. Perché le grandi notizie nascono da lì, lo sappiamo, dai guai. Mai che uno scoop memorabile sia venuto fuori dalle bellezze del mondo, non lo ricordo, e non penso di sbagliarmi, magari, chissà, forse, come tutto. Che dirti? Sono caduta in errore molte volte e per questo non ho mai pensato di far la morale a nessuno, né di mettermi ritta in piedi, ferma sui miei saldi principi, a predicare. Il vento avrebbe sorriso delle mie parole, ne sono certa, si sarebbe impettito sugli alberi, sfrondandoli del superfluo, di tutto quel superfluo che le mie parole avrebbero caricato per la strada, la mia. Ho semplicemente provato a viverla questa donnaccia d’esistenza, che molto promette e poco concede, e ho cantato una manciata di blues, e senza ombra di smentita, non amo le false modestie, ecco, posso affermare che qualcuno di questi m’è uscito fuori veramente bene, sfido a farlo meglio di me, a cantarlo, dico, a viverlo, forse. Ho scelto mia cara, e sbagliato. Ma in una vita degna d’esser chiamata tale, in una vita vissuta, come dico io, è necessario sbagliare. La misura dell’errore ti da la grandezza della scelta, e poco male che le cose vadano a puttane, ne siamo
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Non c’è sentore di natale in questa stanza. Ne ho trascorsi di diversi in vita mia, forse troppi da qualche parte potrebbero dire. Troppi di natali vissuti in giro per il mondo, volta dopo volta lontano dal posto che in qualche modo avrei potuto chiamare casa. Troppi e tanti vissuti in malomodo, ma a ciascuno riesco ancora nella memoria ad assegnare un sapore, un gusto preciso.
Qui dentro no.
Non c’è sentore di natale in questa stanza, eppure natale è. Lo dicono alla tele, si sente l’eco lontano di qualche cherubino che intona il tipico canto, ma non scorgo lume di candele rosse a segnare il cammino, né tavole imbandite a festa. Mi sono ritrovato spesso seduto presso tavole riccamente assortite dei più pregiati ritrovati culinari che non vedo più intorno. E in questo letto d’ospedale non riesco a scrollarmi di dosso l’infanzia e il gusto delle piccole modeste razioni di un cibo da condividere nella sacralità della famiglia, quella famiglia che non ho mai avuto.
Adesso avverto solamente la pesantezza del mio respiro.
E socchiudo gli occhi.