Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia.
[M.Pantani]
Il serpentone è piccolo, lo scorgo appena, pochi tornanti sopra le nuvole. Si muove, strisciando, lento e impassibile come su un binario certo e deciso che sa dove andare, mentre io ondeggio, sul filo di un tubolare che incerto vira qua e là. La vita, un tubolare. La vita in un tubolare che similmente vira e danza e si scosta prima che si sia in grado di centrare il punto giusto, di una appartenenza serena.
Il serpentone è piccolo, lo scorgo appena, pochi tornanti sopra il mio capo, madido di sudore e riflessi di memorie evaporate.
Memorie d’infanzia sulla spiaggia a respirare aria umida e densa che t’entra dentro e talvolta pare mandarti in corto di fiato. E le onde, una sull’altra a rincorrersi, a spegnere il fragore della spuma, nell’essere ricacciate indietro dalla risacca. Uno schiaffo di vento, e ti ritrovi indietro, a guardare tutti di spalle, mentre quel vento, maledetto t’ha tagliato fuori dalla scia. E te ne resti lì, fermo sull’asfalto che sembra sabbia e ti risucchia nella fatica di rimanere immobile. Piantato.
Il serpentone è piccolo, lo scorgo appena, posso tendere le braccia in avanti a sfiorare l’orizzonte, le dita allungate, le gambe tese, in un ultimo estenuante tentativo di afferrarlo. I denti stretti, che non passi aria, e il pensiero, un solo pensiero che muove ogni cosa attorno a me, e trattiene ogni goccia di vita, e mi tiene sospeso tra la folla e l’asfalto.
Un solo pensiero: riprenderli.
La spiaggia è lontana, come il brusio dei bagnanti, sempre sorridenti, a bocche larghe. Talvolta sguaiate nel parlar dei passanti, delle belle signore dai costumi attillati e i pensieri nascosti dietro enormi lenti oscurate. La spiaggia è lontana e la spuma non mi rinfresca più il viso come allora, adesso il caos mi circonda, clacson e urla, freni d’auto a stridere, prima che il guardrail sia l’ultima corsa, e motori fumanti, stanchi d’andare, come fosse possibile farlo.
Fermarsi. O cadere.
Fermarsi e cadere, ché quando rimani sospeso su di un tubolare incandescente, spesso finiscono per essere sinonimi. Fermarsi e cadere.
Come a me è accaduto. Cadere. O morire. Che in certe occasioni è lo stesso. Nelle volte in cui vai, e ti lanci, e sei oltre quel metro che dovrebbe tradirti, e t’impegni e ci credi. Per tutte quelle volte che hai percorso la strada e ne conosci la forma, l’odore, il gusto d’andare e ne anticipi il tratto, quel dosso nascosto, il manto rifatto che è pronto a sfidarti, e non senti che l’aria a sfiorarti la pelle. Certe volte nel gelo, coi compagni che imprecano, t’imprecano addosso, e quelle volte nell’afa che per nulla ti solleva il cammino e t’avvolge, e t’abbraccia, senza che tu ne abbia voglia o possibilità di svincolarti. È la morsa che stringe e spezza il fiato, per quel poco che ne resta.
Cadere, morire, andare. Certe volte rialzarsi. Come a me è accaduto.
La fatica dell’essere a terra, disteso. L’asfalto duro, inospitale e ogni cosa ti appare distante, dolorosamente distante, mentre le gambe cigolano e la paura ti assale, che qualcosa sia andato di traverso, oltre i raggi delle fragili ruote, e le ossa e i muscoli che forse t’hanno tradito.
Poi, ti sollevi lentamente, ascoltando ogni scricchiolio che dentro quel corpo dolente risuona, e un sospiro solleva il petto, l’anima e la voglia di saltargli ancora addosso, al destino. Quel destino che conosci da tutta una vita, da quando in famiglia ti è stato presentato che avevi a stento le gambe per salirci su. Quel destino di tubolari incrociati e pedali così leggeri da volar via al primo soffio di vento, così pesanti da non potersi scostare, nemmeno fossero cime di una vetta immobile da secoli.
Un tipo mi cerca, mi segue, mi guarda, mi spinge. La pena negli occhi e a parole distratte mi incita: «Marco, Marco, Marco», ma non è che il mio nome e a poco serve quel nome quando scali frequenze nel passo, quando il passo non muove le ruote, quando il sole che scioglie l’asfalto ti si appiccica addosso e non puoi risalire.
Mi guarda quel tipo bizzarro e mi sfiora la maglia, mi colpisce la schiena senza alcuna violenza, e corre, e suda, e ansima e prega. Lo sento pregare, lo credo pregare, o forse son io che voglio. Pregare. Sperare che ogni cosa finisca, che la fatica si plachi, che quel dolore al costato mi abbandoni, scivolando oltre i pedali. Ma sono pochi metri, nemmeno cinquanta, che l’omino colorato, dal baffo fluente rimane dietro, fermo, incredulo.
Avrebbe voluto lanciarmi, come per quelle macchinette a molla che da bambino facevo scorrere lungo il pavimento di casa. Un tiro indietro e via, contro la parete, a far vibrare la credenza di mamma, carica di monili e stoviglie stipate da una vita, la nostra, per quel che ci portiamo dietro del passato, per la memoria dei morti, che vivono ancora se hai foto da scorgere e ricordi da dire.
Quel tipo è lontano e il tornante risale, s’alza la strada, s’avvicina l’inferno. Le urla invadenti ancora una volta provano a far capolino tra i miei pensieri, ma c’è poco da fare, pensare o ricordare. Guardo la strada, la fisso in un punto, la seguo, tratteggio una linea ideale che separa me da loro.
Così t’illudi d’essergli a un passo, a ruota. T’illudi d’aver fatto il possibile per esserci, per stargli dietro e sentire la loro fatica che si fonde alla tua e stai lì, convinto di poterli raggiungere stringendo le mani sul manubrio, scaricando ogni residuo di forza che t’è rimasto in corpo sui pedali. Ti ergi, oltre il dolore che avverti in ogni singolo muscolo.
Sei lì, pronto, basta un ultimo scatto.
E invece…
E invece la fatica ti allontana, e la scia di sudore, che invano hai inseguito, svanisce e sconfina, verso una discesa che non ti appartiene più.
A volte accade di ritrovarti davanti agli occhi situazioni cui eri abituato un tempo, e le osservi. E, viste da un’altra prospettiva, le scorgi meno familiari di quanto pensavi. Ho arrancato per molto tempo, in precario equilibrio e quanta strada ho fatto non saprei dire. Eppure ricordo bene le sfumature dell’asfalto. Ve le potrei descrivere.
Quell’asfalto incandescente, che ogni cosa brucia, e trattiene l’ultima parola detta. La bestemmia scivola invece, è cosa nota, e si perde in mezzo ai campi.
Sull’asfalto mi sono svegliato, ho mangiato, sorriso, pianto, bevuto, pisciato in diretta. Sull’asfalto ci sono finito in frantumi, a raccogliermi i pezzi di ossa troppo presto arresesi all’impatto.
Io no.
Quell’asfalto me lo sono chiamato amico. E l’ho segnato col mio incedere frenetico verso la cima. Nonostante tutto. Nonostante le volte in cui ogni cosa sembrava rimanergli appiccicata e hai voglia a spingere su quelle pedivelle, hai voglia a metterti in piedi, hai voglia a sudarci su tubolari così leggeri.
Leggero, il mondo sembrava ondeggiare attorno a me, come le barche di pescatori mattinieri usciti in cerca della buona sorte. Uomini dalla scorza dura, scolpita dal sole, fissata dal sale. Uomini di poche parole e tanta fatica. Uomini che non sanno parlare ma sanno ben dire, e soppesano le loro espressioni, per non gravarsi di carichi superflui nelle giornate di tempesta. Quei pescatori solitari affiancati dall’incanto della speranza, la speranza di riempire le reti. Pesce fresco e grasso, e paura. La paura di ritrovarsi dentro ancora scarpe spaiate e sfondate, che a casa ne hanno già troppe. Ed io come loro, con l’incanto negli occhi e il dolore nelle gambe, a credere di poter portare a casa un altro paio di scarpe, migliore.
Per me e per i miei.
Il serpentone è piccolo, lo scorgo appena, pochi tornanti oltre la valle. Adesso si scende e il mio corpo vibra, come fosse strumento, ma che musica suono ancora non so. Si scende, si sfreccia e non vedo che occhi, bagliori, fiammate di sguardi che incrociano il mio. Speranze, dolori che svaniscono in un batter di ciglia. E sono le mie e sono le loro. Ci accomuna la strada, un infinitesimale tratto di strada in cui ogni cosa si concorda, sì, come fosse musica, e ci avvicina fino al tornante successivo in cui ci si perde di vista e di memoria.
Si scende, si sfreccia con addosso giornali. Storie a proteggermi il petto. Vite tradite, abusate, distorte, sogni piegati d’esser campioni, di vincere perfino la sorte. Ed è il sogno lungo il quale io vivo che mi spinge ad andare più forte, che il dolore sia breve. E leggero come il mondo quando ti sembra che si possa sospingere con un soffio, quasi fosse un pallone nel parco e tu lo trattieni con le dita paffute ad un filo, che forse ancora oggi è speranza. Leggera.
Tutto così leggero tranne la mia bicicletta, quella bicicletta, maledetto destino, non si smuove d’un passo. Nuovamente si risale la china, l’aria si ferma, il sole ti bracca, l’ombra si fissa e non schioda d’un metro.
Guai a guardare avanti. Andando in bici ho imparato a non fissarmi sull’orizzonte che non giunge mai. Ho evitato nei momenti di sconforto d’alzare gli occhi, sopra la fronte, che i tornanti ti fissano senza alcuna pietà, impietriti da secoli, asfaltati da qualche stagione, con la neve che puntuale anno per anno scende a far loro compagnia e ti serra il respiro, ti ghiaccia la voce, mentre bestemmi perché.
Cattivi ricordi ormai lontani, cattive strade abbandonate da tempo. Eppure vorrei esserci ancora. Su quelle strade. Sbucare dal tunnel discreto e segnare la distanza, tra me e gli altri, mentre il pubblico trattiene il respiro e attende. Ed io vengo fuori, danzando leggero, come vela al vento mentre gli altri arrancano e scivolano via, indietro. Sbucare dal fraterno tunnel, dentro il quale nelle giornate canicolari avremmo voluto fermarci, e sostare qualche minuto in più per sfuggire alla morsa opprimente di un sole giudice dei nostri passi.
Ma bisognava correre.
Andare a caccia del folle partito qualche ora prima, mettersi sulle tracce lontane del manipolo di pazzi da catena, fuggiti all’avvio, in balia del caldo e dei tornanti e degli sponsors. Ore e ore in viaggio, in quell’anticipo di morte da fatica che stremati li avrebbe condotti ad arrivare in ritardo all’appuntamento col traguardo. Soli, soli come pescatori nell’asfalto, dalle scarpe spaiate e veloci. Soli, col peso delle loro ombre che, passando da destra a sinistra, facevano boccacce e sorrisi irriverenti. Senza che ci si possa contrapporre, scalciando, imprecando, sputando, perché le ombre giocano sempre con la tua fatica. E vincono.
Di fatica se ne faceva, se ne è sempre fatta. È nel destino delle cose, di questa cosa, chiamata bicicletta, dell’incrocio di tubi e gambe e bave e pedali che ne fanno uno sport.
E noi personaggi di questa tragicommedia. Pazzi da catena in fuga mentre la mia saltava lasciandomi a piedi. Così nuovamente in sella, di quel fido ronzinante che dovevo condurre al galoppo in testa al plotone. C’era una maglia da difendere, uno stendardo da issare per essere visibili, per batter cassa. Una maglia. La sola a difendermi. Una seconda pelle, mista a puzzo e sudore, acqua e sale. Ormai da anni la mia vera e propria pelle. Rattrappita e con qualche piega e scarti di giornali, come detto. Notizie passate, vissute da altri, mostri sbattuti in prima pagina condannati dal giudice supremo dell’opinione, mostri che sono loro e poi ti ritrovi ad esser tu. Adesso da qui leggo a malapena il colore ormai sbiadito di titoli infamanti battuti a nove colonne.
Cattivi ricordi, ormai lontani.
Come lontano si snoda quel serpentone al quale restavo appiccicato appena negli ultimi giorni.
Adesso sale veloce dalle mie narici il puzzo di piscio che molti lasciano per la strada, al margine di un’esistenza bruciata in una dose sbagliata. La mia. Ed io qui, in questa stanza che non fa rumore. Lontano dal fragore dei tornanti, che avevano una sola voce, un solo nome da pronunciare al mio passaggio.
Il mio.
«Marco, Marco, Marco, Marco»
«Pirata, Pirata, Pirata, Pirata»
«Campione, campione, campione, campione»
Ed io qui, solitario e desolato come un pescatore che non ha più remi, né lenza, né mare. Soltanto il ricordo delle mattinate in giro, carico della speranza dell’incanto.
Vivo nella paura del non ritorno.
Il mio.
Ed io qui, rimasto invischiato in un asfalto che non mi lascia andare, nemmeno provando a scendere da quella bicicletta sarei in grado di liberarmi, di liberarmene.
Ho perso il colore della mia pelle, forse candida un tempo, forse rosa come quella maglia che per poco tempo m’ha nascosto al mondo. Fino a quando mi sono incontrato allo specchio nudo e solo, senza la salita da scalare, senza tornanti da mordere, senza nessun avversario da sfidare. Solo senza nessuno da temere, ormai, soltanto me stesso. E qualche secchio d’acqua che lentamente scrollerò dalle mie spalle ritornando ancora una volta per quelle vecchie strade abbandonate dal tempo. Ad inseguire. Ad inseguirmi.