Il maresciallo A.G. rimase con le dita intirizzite, come se il gelo fosse sceso nel suo studio. Erano settimane che trascorreva la maggior parte del tempo rinchiuso là dentro. Senza far più caso al continuo sbraitare della moglie che vedeva sfumare il periodo vacanziero in sterili uscite serali, senza concludere granchè. S’era rinchiuso assaporando il gusto delle pagine ritrovate nell’appartamento di A.M., v’era in lui la folle idea di ricostruirne il volto attraverso la scrittura, v’era la morbosa curiosità di ripercorrere, non visto, i passi, anche quelli più intimi, di un essere umano, e v’era il piacere della lettura che lo accompagnava enfaticamente.
Talvolta sorrideva, altre volte rimaneva a riflettere, in altre un brivido scorreva dentro. C’erano anche alcuni casi in cui sdegnava le righe che aveva appena terminato di trascrivere.
Ma in quel momento, dopo aver appena concluso la breve lettera una sensazione di gelo lo colse. Guardò più e più volte la data di quel foglio. Dal freddo al caldo, iniziò a sudare, le dita appiccicose sulla carta non ne volevano sapere di staccarsi. Eppure la data non mentiva.
Chiamò a gran voce la moglie. Quasi urlando. La donna accorse preoccupata. Riuscì, il maresciallo, tremante, a passarle la lettera, e le dita si staccarono non senza una certa sensazione di dolore. La moglie lesse, lentamente, e diede la sensazione d’aver gli occhi lucidi alla fine. Poi restituì sempre più commossa la lettera. Non aveva capito, non poteva neppure sapere la donna, e il marito lasciò che così fosse. Tenne per sé quella verità cui nessuno avrebbe potuto credere.
La lettera riportava la data del 18 giugno 2011, giorno in cui era stato ritrovato il cadavere in avanzato stato di decomposizione dell’uomo.
L’ultima missiva del correttore di bozze diceva così:
Vorrei saper spegnere l’anima, per spegnere la mia.
Vorrei saper parlare al vento, per chiedergli quale strada fare
senza rischiare di tornare, e vorrei imparare molto più di quello che so.
Vorrei guardare negli occhi i miei errori per riconoscerli ed abbracciarli all’alba con l’incanto di una scelta nuova, senza che il timore di sbagliare mi conduca a farlo.
Vorrei fare del male per il puro piacere di saperlo, eppure far male non so.
Dovrei imparare, almeno per difendermi, da tempo cammino con le spalle scoperte.
Vorrei pure non riempire le mie notti insonni con le angosce dell’infanzia, quando la sindrome della farfalla guidava gesti e parole, e timori, e non ridestarmi dall’incubo col sudore che riempie la bocca e spezza il respiro.
Vorrei saper spegnere l’anima per lasciare dietro il peso di quei pensieri.
Ogni domani s’alza con buone intenzioni e si piega come la luce del giorno nella stanchezza d’aver mancato qualcosa, forse la più importante. Ogni domani lascia dietro sé il ricordo di ciò che avrebbe potuto essere. Il mio domani giunge a svegliarmi dal sogno, e come ogni volta so bene mi tradirà.
Oggi ho imparato che il mare in genere lenisce le ferite, ma per alcune cicatrici basta appena. Oggi ho imparato che puoi cambiare città, quartiere, nome, casa, religione, ma dovunque tu vada, con qualunque maschera tu sia in grado di mostrarti al mondo, non riuscirai a lasciarti indietro. L’ombra di ciò che siamo ci insegue, anche nelle notti più profonde. Perchè in fin dei conti ogni trasformazione o cambiamento non è altro che lo svelamento a sé stessi di quel che si è. Il mondo ci guarda con occhi nuovi per pochi istanti, poi l’abitudine alle nostre azioni ci rende banalmente comuni.
Sei quel che fai.
Adoro i pazzi smemorati, non sanno d’esserlo, e godono la vita come un pasto nuovo, non desiderato, dal sapore di un istante che scivola oltre il palato senza lasciare traccia. Non conoscono il gusto del dolce, né sdegnano l’amaro, perchè non ne hanno memoria.
Apprezzo chi tende le braccia al prossimo per il piacere di un sorriso, senza il bisogno d’esser ripagato. Perchè un grazie detto nelle giornate di sole è un assegno di tristezza. Apprezzo la mia bottiglia sempre vuota perché mi spinge a far qualcosa per averne un’altra uguale e piena, apprezzo la mia povertà, l’incredibile capacità che ho avuto fin dall’infanzia di contrarre debiti, materiali e morali.
Ho centinaia di grazie conservati nelle tasche, grazie stretti tra le labbra che mai ho voluto pronunciare. E liste di creditori che attendono un segnale, ma ho poco da scrivere adesso per poterli pagare, e per loro le mie tasche sono vuote.
Vorrei saper spegnere la mia anima, per riprenderla.