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Valerio Aiolli

Oggi #5domande1stile ospita Valerio Aiolli.

Esordisce nel 1995 con la raccolta”Male ai piedi” (Cesati), cui segue il primo romanzo “Io e mio fratello” (Edizioni E/O, 1999 – vincitore del il Premio Fiesole e nella dozzina del Premio Strega). Ha pubblicato per Rizzoli, Alet, Gaffi. Con Voland sono usciti i suoi ultimi lavori “Lo stesso vento (2016) e  “Nero ananas” (2019 finalista al Premio Strega di quest’anno).

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

È come vedere il profilo di una catena montuosa, o di una skyline di palazzi, illuminata per un attimo da un fulmine. Ne scorgi le dimensioni, le proporzioni, ne indovini i colori. E’ un istante di profonda esaltazione. Il lavoro, poi, è cercare di ricreare nella realtà della scrittura quella visione. Non ci si riesce mai completamente. A volte non ci si riesce per niente (i progetti che non arrivano in fondo).

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

Il finale lo intravedo dall’inizio, ma si chiarifica via via. Quando arrivo a scriverlo, di solito, sento che è quello, e che nessun’altra parola potrebbe essere aggiunta. E’ un processo che si conclude simultaneamente, dentro e fuori di me, sulla pagina.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

Sì. Scrivevo da sempre, ma senza continuità e senza obiettivi, come una cosa del tutto privata. Pensavo che “fare (o essere) un scrittore” mi fosse precluso in partenza: le cose troppo belle non si avverano, così mi dicevo. Poi, a trentun anni, avvertii che l’inquietudine che fino a quel momento ero riuscito a tenere a bada stava lievitando in me. Un paio di settimane di disperata resistenza e poi dovetti ammettere a me stesso che se non mi fossi messo “sul serio” a scrivere, una parte di me (una grande parte di me) sarebbe morta, lì all’istante. Così, cominciai a scrivere davvero. Perché proprio a trentun anni? Non so. Mi era nato il primo figlio da un anno, forse questo evento aveva messo in moto processi profondi, chissà.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Lo stile – o la voce – di uno scrittore è il suo modo di essere. Ci si arriva per gradi, facendo anche molti tentativi a vuoto, soprattutto i primi anni. Poi piano piano la si riconosce, diventa uno strumento di lavoro. La si può sempre un po’ modificare, così come ci modifichiamo via via che cresciamo, maturiamo, invecchiamo. E’ un vincolo solo se la scelta (di un determinato stile) è avvenuta superficialmente. In quel caso più che di stile parlerei di “maniera”. E’ una scorciatoia che può portare in un cul-de-sac: vieni riconosciuto con più facilità, all’inizio, ma poi ti trovi prigioniero di una modalità di scrittura che non senti più tua.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Credo che la letteratura non debba porsi simili finalità. Non solo perché gli indici di lettura sono così scarsi che è davvero difficile immaginare libri che riescano a incidere su una società che, in generale, non legge. Ma anche perché lo scopo di chi scrive, secondo me, deve essere soltanto quello di scrivere buoni libri, che tocchino nel profondo le persone che li leggeranno. Già questo, di per sé, è un gesto politico, in quanto riguarda la comunità. Quanto meglio fai il tuo lavoro (e il lavoro di chi scrive narrativa è, semplificando, scegliere al meglio le parole per raccontare la storia che stai narrando), tanto meglio starà la comunità dei lettori. Già sarebbe un grande risultato. A tutto il resto credo meno. La letteratura è arte, e l’arte non può essere ricondotta strettamente a fini socio-politici (sia pur “buoni”), pena il rischio di trasformarsi in qualcos’altro: militanza, opere a tesi, ecc.

 

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