La puntata di oggi di “Cinque domande, uno stile”, dedicata agli autori candidati al premio Strega, ospita Veronica Tomassini.
Giornalista e scrittrice siciliana ma di radici umbre, collabora con Il Fatto Quotidiano dove cura anche un blog: tra i suoi scritti ricordiamo l’esordio “Sangue di cane” (2010, Laurana Editore), “Christiane deve morire” (2014, Gaffi), “L’altro addio” (2017, Marsilio) e l’ultimo “Mazzarrona” (2019, Miraggi Edizioni, presentato al premio Strega 2019 da Giovanni Pacchiano).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Il compimento di qualcosa è il vuoto che si riempie. Il tutto sul vuoto.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Entrambe le cose. Ogni parola deve essere quella. Il ritmo la chiusa a un capitolo. Una disciplina severa persino nel ritmo.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”
Scrivo e basta, da moltissimi anni, dopo aver vissuto moltissimo. “Devo scrivere”: è un’affermazione implicita, immagino.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
La regola è non averne. Lo stile è una cifra che si conforma e si evolve, ma non ci ho mai ragionato in questi termini.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Oggi la letteratura non lo fa più. Non è più un gesto politico. Si è fermata al neorealismo.