Per qualche settimana niente più condivisioni o vite virtuali da assorbire dietro una tastiera senza respiro.
Soltanto il piacere di raccontare.
“Quantu strati e paisi e citati canusciu, e quantu treni a scinniri e a acchianari.”
[I. Buttitta]
24/25 Novembre Palermo-Civitavecchia-Massa Marittima.
La luce della notte scende lentamente sulla città, ma non l’ammanta di silenzio. Le strade come al solito caotiche e intasate dal traffico strombazzante di gente in moto, sempre di fretta. La nuova bretella della metropolitana ci ferma a riflettere sui massimi sistemi, per un periodo tanto lungo da trovar quasi soluzione al problema della fame nel mondo. Di quella fame che attanaglia milioni di esseri umani. Ma, proprio quando ci convinciamo di esser giunti al varco della questione, ecco che un gentile automobilista, sollevando in maniera aggraziata indice e mignolo, e trattenendosi dal mostrare il pollice, ci invita ad andare oltre quelle vittime e camminare lungo la via. Altri in maniera più concitata ci fanno ascoltare le melodie acute dei loro clacson.
Alcuni perfino le loro potenti voci.
Sempre aggraziate.
Certo via Oreto è un coro di voci e colori. E la musica risuona melodiosa al passaggio del rinomato store di novità discografiche, “Dall’Etna al Vesuvio”.
Musica e colori.
Pressapoco infuocati, come gli stop delle automobili che, non seguendo affatto un ritmo accettabile, s’innescano presi da un raptus di follia.
Ma è la città e sono appena le sei.
La nave salpa alle otto, siamo più che in anticipo.
Il fiume di automobili non vuole saperne di defluire e i semafori, come accade in queste occasioni, rimangono per un tempo indefinito a fissarti con occhi rossi. Ci si muove lentamente, in maniera snervante, mentre qualche ape truccata ancora in circolazione, carica di ferramenta e reti arrugginite, s’accartoccia sul ciglio della strada riuscendo a farsi largo in un raffinato gioco d’equilibrio. Nel frattempo c’è qualcuno convinto di non averci fatto ascoltare abbastanza il suo nuovo clacson rombante e allieta le nostre orecchie ripetendo sempre la stessa nota. Proviamo a chiudere i finestrini notando che quella marca di clacson (complimentoni alla casa produttrice) supera notevolmente l’esile protezione acustica del mio povero finestrino.
Rimane scoperto e indifeso, non infastidito quanto noi.
Mentre il fiume si muove, lentamente, ma si muove.
E prima o poi ti porterà là dove devi andare.
“A fanculo devi andare”, interviene, come in una sceneggiatura surreale, un tipo sulla settantina, che a stento mostra gli occhi oltre il volante della sua fiat 500, vecchio modello, color celestino-cagata d’uccello. Occhialini puntati sul naso e un gesto, che non lascia adito ad interpretazioni equivoche, con il quale accompagna il passaggio radente di una moto contromano.
Siamo quasi giunti alla stazione mentre un numero spropositato di pedoni inferociti ci attraversa la strada, marciando addirittura sulle strisce pedonali. Il loro passaggio al trotto è sempre accompagnato dalle trombe che stonano un po’ a dire il vero.
Riusciamo a svoltare sulla destra ammirando la centralità immobile della stazione e ci infiliamo in piena chinatown. L’andatura a passo d’uomo sognante ci permette di poter ammirare dettagliatamente ogni capo d’abbigliamento ben esposto alla polvere, che nemmeno i più rinomati negozi del centro. Un completino giallo intenso alletta i miei gusti, ma un altro amico di percorso, con fare estremamente gentile, ci invita a smuoverci di qualche passo ché nel negozio giù all’angolo ha visto qualcosa che lo interessa. La strada si restringe per lavori di consolidamento dei marciapiedi, credo, fino a divenire un imbuto nel quale la mia panda riesce a stento a passare.
Il fiume scorre e ci porta su via Lincoln.
Sono appena le sette meno venti, un arancina a bomba prima di lasciare l’isola ci sta.
Un simpatico parcheggiatore afroamericano, lo intuisco dal sorriso, ci invita ad accostare proprio davanti ad un cancello.
“Lasciare libero lo scarrozzo. Anche di notte.”
Parcheggio.
Ci gustiamo il nostro arancino, approvvigionandoci d’acqua e gomme, paghiamo l’amico sempre più sorridente con 50 centesimi, mentre Jack gli chiede se magari ci sia rimasto male per così poco. Ma il tipo sorride ancora.
Poco male.
Ci fa manovra e riesce per poco a farci portare in nave come bagaglio aggiunto un autobus di linea, ma siamo pieni a tappo e l’autista a malincuore è costretto a rimanere fuori, e per questo credo inizia a imprecare, o come direbbe Montalbano a santiare.
Non salperà con noi per stavolta.
Il parcheggiatore continua a ridere come se nulla fosse. Inizio a sospettare che abbia una paresi facciale.
Partiamo, attraversiamo il foro italico proprio mentre un simpatico corridore del martedì pomeriggio, vestito tutto punto e catarifrangente, non s’inventa il salto della carreggiata.
Scansato.
In maniera insolita le macchine sembrano adottare una velocità superiore e la cosa mi prende alla sprovvista, m’ero quasi disabituato a mettere la terza, fatto sta che riusciamo a giungere al porto.
La nostra grande nave, e pure veloce a quanto dicono, si chiama Fantastic e ronfa proprio all’ingresso. Si fa il check in e c’imbarchiamo. Parcheggiamo e salita la rampa di scale inizia la solita ricerca per anonimi corridoi della stanza.
7257.
“Dall’altra parte della nave, a prua.”, mi dice un tipo vestito con una giacchetta rossa e filature gialli, abbigliamento che ci si aspetta nei pressi di un circo, non su una nave. Peccato ho sempre avuto un debole per le poppe, e mi tocca pure camminare di più.
“Ah, scusi dimenticavo, ma la partita stasera la danno?”
“Magari.”
La celletta è in fondo al corridoio, che stava in fondo al lungo corridoio, che girando a destra, in fondo, avremmo trovato oltre l’atrio e superando l’ennesimo lungo corridoio.
E altri passeggeri in preda al panico, ma la mia camera prima era qui, e adesso dicono fuori da ogni logica, mentre gli inservienti circensi provano a rincuorarli.
Noi riusciamo ad entrare nella nostra.
Mi lascio cadere sul letto dimenticando quanto poco morbido sia, ma fa lo stesso. Passano alcuni secondi, in cui fisso il soffitto basso e angusto, mi giro verso Jack e capiamo entrambi che da lì dobbiamo scappare.
Portiamo con noi le chiavi magnetiche accertandoci che non ci lascino fuori, e dopo un po’ di prove capiamo che potrebbe essere possibile. Ad ogni modo ci avviamo verso il centro della nave. Discendiamo sul ponte sei, a pochi passi dal bar.
Siamo ancora attraccati al molo ma inspiegabilmente la nave saltella.
Il mondo è proprio piccolo si direbbe, e seduto su uno sgabello del bar ritrovo mio cugino in partenza per la Germania.
Soliti scambi di telefonate sul “non immagini con chi sono…”, e roba varia.
La voce squillante della signorina al centro informazioni annuncia che il il ristorante self-service è aperto. Andiamo a cena e durante il tragitto ci imbattiamo in una zona wi-fi. Magari riusciamo a vedere la partita in streaming, mi dico. Chiedo in giro, ma a quanto pare devo recarmi allo sportello informazioni. Lì una tipa molto simpatica e ben vestita mi dice che con dieci euro posso navigare per due ore. Affare fatto.
Ritorniamo al ristorante. Ceniamo e chiacchieriamo a lungo. Mentre gli altri passeggeri strafogano i loro discorsi nel succulento menù che lo chef della nave ci ha riservato.
Ciccio racconta delle strutture urbanistiche tedesche che si pagano ma ci sono e funzionano, Jack della bimba venduta per cento marchi e dell’auto che un suo commilitone in Kosovo s’è ritrovato a fermare. Da non crederci la sua, rubata in Molise e transitante per le strade di guerra.
Il mondo è piccolo.
E io ascolto. Le loro parole e sopratutto la voce del mare, che non mi pare avere un gran tono.
Infatti si balla e parecchio.
Ritorniamo nella zona wi-fi e proviamo a smanettare sul pc. Dopo alcuni tentativi sentiamo la voce di Caressa-Bergomi, un unico essere pensante, che annuncia le formazioni. Ci siamo.
Beh, ogni tanto l’immagine si ferma, un po’, poi di più, fino a quando rimane fissa sulla maglietta di Maicon e da lì non si schioderà più per tutta la notte. Mentre io solcherò il cammino dalla sala bar al bagno.
“Ho mille posti dove sono stato…”
Le parole di questa canzone mi risuonano nella mente come un loop fuori controllo, e accompagnano i miei pensieri, e sono certo che riescono a dire molte più cose di quelle che potrei, adesso.
Il piccolo e sconnesso viaggio in giro per l’Italia nasce dalla volontà di cambiare aria, o forse anima. Da troppo tempo mi ritrovo fermo sui miei passi, gli stessi. E a camminare sulla medesima strada giorno dopo giorno si rischia di perdere l’idea stessa del cammino. È come per un buon bicchiere di vino che bevuto all’eccesso ci nausea a lungo andare. Ecco, prima che la nausea prenda il sopravvento provo a cambiare strada. Quelle solite robe che ogni tanto scattano nei meccanismi mentali di un uomo affogato nell’ozio.
Ricerca dell’anima, stravolgimento dell’anima… e bla, bla,bla.
Certo è che mai avrei pensato di lasciare la mia anima nel cesso di quella nave, ma poco male adesso posso iniziare da capo.
E devo comprare un asciuga capelli.
Perché guardandomi allo specchio mi accorgo di averne ancora. E di più mi rendo conto di essermi portato dietro me stesso in questo viaggio. Dovrò disfarmene in qualche modo, magari sulla prossima nave e lasciarlo nel cesso.
“Sono state giornate furibonde, senza calma di vento, solo passaggi e passaggi, passaggi di tempo.”
Durante la notte chiudo gli occhi ma non dormo, alleggerito dell’anima, ancora non mi trovo a mio agio e seguo idealmente la rotta della nave, come spesso mi accade nei viaggi poco tranquilli per mare.
La tipa sempre più allegra, nonostante la nave abbia danzato sulle onde per tutta un’intera notte, ci annuncia che lo sbarco avverrà con un po’ di ritardo e per le nove e un quarto circa saremo a Civitavecchia.
Sono le sette e mezza, provo a rimanere a letto, ma non c’è verso, mi rivesto, rimetto a caso nel borsoncino le mie cose ed esco sul ponte a prendere aria.
Ci ritroviamo tutti, chi più chi meno, sballottati dalle onde della notte nei punti di raccolta, seduti e spaesati in attesa che sta cazzo di nave giunga in terra ferma.
Una famigliola intenta a svolgere le più variegate attività. Il padre telefona per affari riservati cui tutta la sala partecipa, la madre ronfa, la figliola legge e il marito della lettrice gioca alla PSP. Ciccio non riesce a capacitarsi di come quei due vadano avanti, e si chiede quale dialogo possa esserci in quelle condizioni di totale alienazione.
Sbarchiamo con notevole ritardo oltre il ritardo previsto, ché la nave veloce tanto veloce non è stata. Ci salutiamo con Ciccio che prende la sua strada verso il profondo nord, e c’incamminiamo lungo l’Aurelia.
Giunti presso lo svincolo per l’Argentario mi rendo conto che da quel punto conosco l’asfalto centimetro per centimetro, avendolo percorso per quasi quattro mesi ogni giorno.
Usciamo a Scarlino e la Massetana, sulla quale mi lanciavo a velocità notevoli, non permette più di portare l’acceleratore a tavoletta. È un cantiere aperto, nuovi tracciati rallentano notevolmente la marcia.
Ritorno a Massa Marittima dopo un anno e mezzo, e nel primo giro Jack mi fa notare che su a Cittanova, nella via principale di nemmeno duecento metri, sette negozi, sette, hanno calato le saracinesche.
Chiusi.
Perfino il bar sotto i portici, il bar degli aperitivi rinforzati a suon di pane e crudo e cremine deliziose chiuderà entro l’anno.
La crisi qua si fa sentire eccome.
26/30 Novembre, Massa Marittima-Follonica-Riotorto-Siena
Massa Marittima è il luogo ideale per scrivere senza distrazioni. E di distrazioni se ne trovano davvero poche, per chi, come me, ama distrarsi. Le mattine scorrono tranquille e nel silenzio dei boschi scrivo a ritmo sostenuto. Soltanto qualche folata di vento si fa sentire e risuona tra le foglie degli alberi che ancora resistono ai loro rami.
L’architettura medievale della città è davvero deliziosa.
La piazza principale è dominata dalla cattedrale, l’alto campanile, d’un bianco marmoreo, è incastonato tra la chiesa e il tronfio palazzo vescovile dal colore sgargiante. La scalinata circonda l’intera costruzione, che pare esser stata posata da una mano altra sulla piazza scoscesa. Le piccole vie del centro appaiono come disegnate da una versione vintage di autocad con cura, e con cura mantenute.
Costruzioni antiche rimesse a lucido e silenzio tutt’intorno.
Pochi balconi che distinguono i palazzi signorili dalle abitazioni comuni e qualche mostro di cemento che sovrasta la dignità della storia e il banale senso del buon gusto. Talvolta, nei momenti in cui i rari passanti attraversano il centro, pare di ritrovarsi in una città fantasma, fino a quando, però, si entra nei ristoranti caldi e accoglienti.
Lì il tramestio di piatti e posate è vivo, come le voci e i sapori della buona cucina toscana, se non fosse per il pane sciapo…
Ce ne sta uno proprio di fianco alla cattedrale, il San Cerbone, su una stradina scivolosa e beffarda.
Si mangia e si beve bene, e si paga poco.
Scendo verso Follonica tra deviazioni varie e cantieri invadenti.
Non c’è granché da vedere in questa cittadina. Sobborgo nato attorno alla linea ferroviaria e cresciuto sul lavoro del ferro. Soltanto un immenso lungo mare e quartieri con palazzoni sempre uguali.
Niente di che, e tenuto conto che è meta turistica estiva, il 26 novembre non s’incontra l’ombra d’un cane per strada.
Mi fermo sul lungo mare a fumare una sigaretta mentre le onde risalendo a riva mormorano qualcosa.
Anche il mare ha da parlare, a modo suo.
Una brezza leggera mi pizzica il volto, alzo il bavero della giacca a vento e mi siedo a gambe incrociate sul muretto e continuo a leggere il Birraio di Preston. Bambini corricchiano inseguendosi e altri sbucano fuori a velocità sostenute sulle loro bici, chissà se tra questi c’è qualche mio ex alunno.
Alcuni signori si avvicinano domandandomi informazioni.
“Mi spiace non sono del luogo.”, dico. E mi garba la cosa.
Le nuvole sembrano essersi date appuntamento tutte là, sopra la spiaggia. Mostrano le gradazioni del grigio, ma ancora si trattengono.
“Vanno e vengono e qualche volta si fermano, per una vera mille sono finte e rimangono lì …”
Come in un dipinto retorico, uno squarcio di luce le attraversa e i raggi del sole a fasci si posano sul mare, è un’immagine suggestiva che devo fotografare.
L’isola d’Elba sembra essere una grande ombra inquietante all’orizzonte che riposa, dando l’impressione di muoversi, sebbene lentamente.
Ma è un’impressione.
Accendo un’altra sigaretta e continuo a leggere.
Ci spostiamo verso un maneggio, lì ci attende un amico.
All’entrata una piccola recinzione raccoglie anatre starnazzanti.
In maniera insopportabile starnazzano l’una sull’altra e sono tante, e ci mettono poco a far svanire l’iniziale simpatia che suscita il loro aspetto. Fanno casino e sbattono le ali per soverchiare le compagne.
Ma non sono le protagoniste.
Le regine del maneggio sono le zanzare che a stormi numerosi attaccano con piani prestabiliti. Senza scampo puntano le prede e colpiscono, la loro strategia risulta vincente. I cavalli da tempo non oppongono più resistenza, noi esseri umani cerchiamo di reagire, schiaffeggiandoci, e non è poi una grande difesa a ben vedere.
Turi ci mostra il suo cavallo.
Un Sauro di quattro anni fantastico, dal manto che sembra esser levigato, quasi porpora, le zampe “vestite” da calzini bianchi e la muscolatura imponente. Da piccolo era intrattabile, mi dicono, ma con pazienza l’addestratore è riuscito a renderlo tranquillo. Sembra che mi fissi come a chiedersi che ci faccia quel volto nuovo da quelle parti, ma a scorgere bene da più l’impressione d’avere lo sguardo assente. Certo è imponente, e ogni movimento che compie ha un qualcosa di musicale, l’armonia lo pervade. Ha un nome impronunciabile, quello col quale è stato battezzato mi spiegano, e per questo si preferisce chiamarlo “Mario”.
Sono d’accordo.
Sta in un box che condivide con altri due cavalli. Il primo è un baio nero. Il classico puledro che nell’immaginario cinematografico cavalca solitario verso il tramonto, ma dal suo nitrire non pare abbia tanta voglia di muoversi, né di cavalcare verso alcunché. E quello che gli sta di fianco quasi interamente bianco se ne sta ritroso nel suo box e raramente mette il muso fuori.
Mentre rimango ad osservare gli occhi di quegli animali, che sembrano voler dire parole ma non hanno la capacità di articolarne il suono, dal piccolo, minuscolo, box accanto, che pensavo essere una casupola per attrezzi, spuntano due pony pelosissimi. Vengono da paesi freddi e per quello hanno una vera e propria coperta come manto, mi spiega Turi. Uno addirittura ha una capigliatura che lo fa assomigliare al Gullit dei tempi migliori.
Giocano a scornarsi tra loro i due piccoli.
Lasciamo il maneggio e gli equini in compagnia delle instancabili zanzare che, al suono delle anatre sempre più starnazzanti, continuano le loro spedizioni.
Ci si ritrova per un gustoso e infinito aperitivo fatto di salsine piccanti e fette di pane con pomodorini a pezzetti.
Poi in giro per una pizza napoletana/toscana.
Niente da dire, sembra che i pizzaioli in Toscana si siano coalizzati per ridurre la classica pizza in un disdicevole cracker condito.
La signorina tomtom insiste nel volerci far percorrere la strada più breve per Siena, ma la più breve è spesso la più tortuosa direbbe il saggio, di certo lo è in questo caso. Allunghiamo di qualche chilometro ma ci gustiamo il paesaggio con andatura tranquilla, mentra la sua vocina invadente più e più volte ci chiede con estrema cortesia di “girare quando si può e ritornare sulla strada programmata”. Alla fine cede al nostro volere e rimane muta, salvo risvegliarsi una tantum per urlare che “tra trecentometri svolta a sinistra e poi alla rotonda, dopo la seconda uscita, gira a destra.”
L’ultima volta che sono stato a Siena ho impiegato un paio di giri all’interno delle mura della città per poterne uscire fuori (mi ritrovavo sempre nella stessa via che sembrava sfottermi col suo cartello “tutte le direzioni”), stavolta altrettanti giri per trovare Piazza di Campo.
Prima, però, mi fermo nel bel mezzo di piazza Duomo.
Una minacciosa gru stona dietro il prospetto del duomo, ma i lavori in corso incalzano.
In fondo alla piazza, sulla destra è stato allestito un mega tendone librario. Una manifestazione ben fatta che accoglie le case editrici senesi. Un pavimento soffice, colore blu notte, raccoglie i passi distratti dei visitatori che guardano e toccano libri da uno stand all’altro. Ho l’automobile piena del kit dello scrittore errante, e mi viene l’idea di allestire un banchetto estemporaneo proprio lì fuori, ma mi distolgono da quella che fino a pochi secondi prima m’era sembrata la trovata del millennio, e considerato che al 2012 manca poco, sarebbe stata una delle grandi rivoluzioni del genere umano, ma così non è.
Avrei dovuto iscrivermi prima, moooooooolto prima.
(La mia casa editrice non è senese, non avrei potuto comunque partecipare… !)
Dunque continuo da visitatore interessato tra palloncini che hanno l’effige di un asino, mascotte della manifestazione, e bambini che non ne vogliono sapere di trattenerli per l’esile filo. (E mi domando : chissà se gli organizzatori hanno chiesto l’autorizzazione al nostro sindaco, che, si sa, detiene i diritti d’immagine di tutti gli asini conosciuti e non).
Un furgoncino nero luccicante irrompe dal vicolo nel bel mezzo della piazza. Una flotta di giapponesi vien d’improvviso scaricata come pesce in scatola, gettata via da un portellone che si apre a scatto. Si pensa siano i soliti terroristi islamici e invece simpatiche faccine tutte uguali scendono allegramente, ciascuno con l’immancabile macchina digitale appesa al collo come un cartellino di riconoscimento, e in un linguaggio cantilenante iniziano ad indicare per aria. Per qualche attimo penso che a qualcuno di loro dia fastidio il mio giaccone rosso e blu (che lo confesso stona notevolmente con l’archittetura della piazza e mi rende ulteriormente riconoscibile), ma a quanto pare sono anche loro interessati alla grande serra infondo che cova libri e palloncini con asini (che volano).
Lasciamo piazza Duomo e ci incamminiamo con la mia inseparabile automobile verso piazza di Campo (i cartelli indicano di, sono stato sempre comvinto fosse del…).
Tra vicoli e vie affollate di pedoni che vergognosamente non ci lasciano passare, ci imbattiamo in un’ambulanza che sfreccia contro mano, seguita da una volante della polizia. Alla guida del mezzo ci sta un dolce viso femminile, occhi blu e capello a caschetto biondo, mi fa notare gentilmente che quello contro mano sono io. Mi calo da attore consumato nel tipico atteggiamento da turista gnorri, curo la postura stupefatta al meglio per giustificarmi, ma a quanto pare non serve, la tipa sembra annoiata.
Il mio sforzo teatrale è stato vano.
Faccio manovra cercando di pestare il meno possibile i piedi ai pedoni e ritorno per altri vicoli a seguire le indicazioni dei cartelli.
Fin quando come per errore mi ritrovo in piena piazza.
D’autunno il sole va a nanna abbastanza in fretta.
E il tramonto s’avanza che non sono le cinque.
Basta qualche respiro e ci lascia desolatamente al buio di una piazza fredda, attraversata da numerosi passanti con le mani ingombre di borsette piene di regali.
Siamo a ridosso del Natale, manca appena un mese, bisogna affrettarsi.
A scorgere il campanile immagino di ritrovarmi lassù, e inizio a sudare, le gambe sembrano tremare come se l’avessi fatto realmente.
Guardo per terra e tiro un sospiro di sollievo.
I mattoncini scivolosi e scoscesi di Piazza di Campo sono umidi, ma non posso esimermi dallo straiarmici su. L’ho fatto per ogni piazza che ho visitato, e continuo a farlo.
Prendo una lucky strike dal mio pacchettino in metallo, che da qualche giorno non ne vuole sapere di richiudersi ( e qualche puffo potrebbe esserne responsabile…) e l’accendo tranquillamente. Approfitto degli ultimi bagliori di luce naturale per scattare qualche altra foto (d’altra parte sono un piccolo giapponese anch’io, molto piccolo).
Ci si ferma nel caffè più vicino, un localino davvero carino e raffinato, con un soppalco curato nei minimi dettagli. Angoli incastonati tra le pareti spesse arredati da divanetti e comode sedie, illuminati da eleganti abat-jour, e vetrate che danno sulla piazza. Ma il lusso ha un costo, si sa, e per la modica cifra di nove euro nove consumiamo, chiacchierando a lungo, un cappuccino e una cioccolata.
30 Novembre/2 Dicembre, Frassine/Suvereto/Castiglione della Pescaia e ultimi frammenti di quotidianità massetana.
Rigurgiti mistici conseguenza di un pasto abbondante e difficile da digerire spingono il mio viaggio verso il poggio di Frassine e il suo monastero, ma la pesantezza del pranzo non riesce a farmi entrare dentro, non ancora. Stanno allestendo un recital o qualcosa del genere, si intuisce dai canti ben intonati da una voce di ragazza che avrei voluto conoscere in viso, ma preferisco immaginarla per quel che posso, magari non sarà bella come il canto che intona e ne resterei deluso.
Meglio immaginare talvolta.
Il posto sembra essere incantato. Un signore vestito come nelle migliori tradizioni toscane, camicia a larghi quadri bianca e blu, gilet in pelle e stivali da campagna richiude rumorosamente la porta di una costruzione adiacente al monastero e s’incammina verso di noi, ha le gote rosse rosse, e del buon vino di certo che scorre nelle vene. Accenna un timido saluto, e forse nemmeno quello e continua il suo cammino assorto.
Alcuni manovali lavorano al rifacimento della facciata, per il resto quiete, mistica quiete. Uno di quei silenzi che pare stia lì a gridarti qualcosa, ma forse si è così indaffarati a pensar altro da non capirne le parole.
La cinta muraria del centro storico di Suvereto nasconde la cittadina livornese al progresso. I vicoli sono per la maggior parte piccole scalinate arrampicate l’una sull’altra che salgono verso il campanile.
Le strade ancora, come progettate in origine, mulattiere sulle quali a far attenzione si può ancora ascoltare l’eco degli zoccoli degli animali che per anni e anni hanno attraversato il borgo.
Le case curate minuziosamente, e calorose.
Verso la cima del borgo, ultima rampa percorribile con il mio moderno cavallo d’acciaio, riposa una gogna, silenziosa e inquietante. Infilo la testa e rimetto i miei debiti per una foto goliardica, ma, quando la parte superiore si richiude sul mio collo, sento che l’aria mi viene a mancare, e penso a coloro i quali non avevano idea di cosa potesse essere una macchina fotografica digitale e rimettevano realmente i loro debiti e i loro delitti senza nessuna grazia ad attendere.
Sono stato un criminale per qualche istante e l’ho fatta franca, sono alla moda nonostante tutto, a quanto pare.
Si discende lungo i vicoletti passando a stento col rombante scudiero a motore fino a terminare la nostra passeggiata al trotto in un cortiletto cieco nel quale un magnifico chiostro funge da spazio luce a diverse abitazioni. Si avverte la presenza di una quotidianità comune dalla presenza di panni stesi ad asciugare e il vocicchiare soffocato di due bambini che nascosti dietro una colonna sporgono i loro faccini incuriositi dalla presenza di estranei che stanno fotografando il cortile casa.
Uno sguardo sulla strada del ritorno, al tempo che pare esser passato distrattamente per quelle vie. Se ne scorge la diversa dimensione nel momento in cui si oltrepassa il piccolo arco d’ingresso al centro e ci si immerge nei moderni rumori di piccole cittadine di provincia, con neon sgargianti a pubblicizzare le attività commerciali e pupazzetti raffiguranti babbo natale che scodinzolano, quasi fossero animali a quattro zampe.
Completamente differente appare Castiglione della Pescaia con i suoi innumerevoli box sulla spiaggia deserta che si crogiolano al sole tiepido d’una giornata di dicembre. Ma l’orizzonte ci abbraccia e il sole lentamente scivola via, giù oltre la linea instabile di un mare che non vuole acquietarsi. Si scorge appena l’isola del Giglio e ancor più lontano la piccola e selvaggia isola di Montecristo che tanto spazio mantiene nel mio immaginario letterario.
Ogni viaggio in maremma che ho vissuto s’è sempre concluso con la tagliata. Anche questo, non può che chiudersi con la solita abbuffata di carne al Leccio. Peraltro i lavori stradali ti conducono là, tu lo voglia o no. Dunque meglio fermarsi e assaporare la bistecca fiorentina cotta on-demand. La tagliata che ha tanto da dire, ma alla quale non si da molto tempo per parlare.
Lascio la minuscola trattoria di Massa nascosta in un vicoletto.
Quella trattoria che, oltre la porta d’ingresso, tiene in basso, come natura vuole, uno dei sette nani dal sorriso vispo e dal sorriso insolente che rompe i coglioni fischiando ogni qualvolta la porta stessa viene aperta e richiusa (sarà il famoso nano Scazzolo!).
Lascio la trattoria che nel menù, a caratteri cubitali scrive (l’ho fotografato, senza ritegno tanto che la tipa della pasta fatta in casa s’è piegata in due dalle risate, ma non potevo non farlo): “Pici al fumo!”
(Non vorrei che altre interpretazioni del castelbuonese medio portino ad ulteriori imbarazzi, dunque Pici sta per spaghettoni fatti in casa).
Sostanza della questione, c’è una pasta tossica, tossica in tutti i sensi.
Panna, mozzarella, salsiccia. L’avrò mica mangiata?
Lascio “La lucciola” che è un locale che non s’immagina (e non una puttana della maremma).
Un immenso salone multifunzione dentro il quale accade di tutto, e di più, nei fine settimana in cui la popolazione adulta massetana si riversa per partecipare come in un’antica tenzone alle dispute calcistiche del week-end.
Due anni fa mi ritrovavo volutamente là anche quando l’Inter non giocava.
Era comunque uno spasso.
Personaggi che nemmeno i più grandi romanzieri sarebbero in grado di descrivere inveiscono contro tutto e tutti, pure contro se stessi. S’inventano improperi con una fantasia letteraria degna di Dante, senza mai scadere nella parolaccia e nella banale volgarità gratuita.
S’incazzano con classe.
E puoi vederli con le braccia a mulinare in aria, uno contro l’altro come se stessero lì lì per picchiarsi, ad ogni fischio arbitrale e sopratutto quando l’arbitro non fischia.
Ne conoscono a fondo tutti la vita, la moglie e l’amante.
Ma le loro mossettine si fermano alle parole, ai tentativi. Chè i più giovani stanno sulla cinquantina e i più caldi, quelli che combattono fino al 90 più recupero stanno sui settant’anni.
Nell’occasione di questo viaggio è di scena Inter-Fiorentina.
Per loro semplicemente la Viola.
L’inter domina come nemmeno io avrei mai sperato. E inverosimilmente il silenzio cade sui pittoreschi tifosi, quasi quasi ci resto male. La viola subisce fino a quando Gila s’inventa una giocata fantastica, dribbla due difensori come polli e punta la mia porta. In quel momento riesco a sentire il loro respiro, in affanno, ansimante, stanno tutti sulle spalle del Gila, è, forse, per questo che l’attaccante spara contro il palo. In quei pochi metri non è stato capace di sopportare tutta quella gente sulle spalle.
Eppure è bastata quella sua azione per ridar morale alla tifoseria che inizia il suo solito show, dalla voce meravigliosa di un vecchietto singolare sempre presente (almeno ogni volta che mi sono ritrovato là) esce un urlo quasi animalesco.
“Dominati, li abbiamo dominati!”
E giù tutti a sorridere come pazzi.
Più divertente del campo, molto di più.
Alla fine la Viola perde, io son contento, e loro se ne tornano dimessi alle loro storie quotidiane.
Mentre una ragazza fantastica passa e spassa per la sala portando piatti pieni di panini e schiacce.
Ma il clou giunge alla sera.
Oltre i soliti avventori la “lucciola” si produce in uno dei suoi must.
Il compleanno del bimbo. Età variabile 8-10 anni, non di più. E allora vedi bimbi alti un cacio sbucare da sotto le sedie, infilarsi tra i tavoli, rincorrersi tra loro a velocità vorticose, saltare sul calcio balilla che troneggia al centro della sale, spernacchiare i vecchi che provano a zittirli senza riuscirci. Pare d’essere in una bolgia e il commento sky è superfluo.
Se Murdoch lo sapesse.
Lascio la “coop” che produce tutto, o meglio sarebbe dire tarocca tutto.
Tu vuoi le macine, e loro ti danno le macine coop, vuoi le gocciole e loro le fanno, cerchi gli gnocchi, il latte, la mozzarella, e quant’altro tu possa desiderare?
Coop ce l’ha, e non può darti di più.
Lascio tutto questo e vado in cerca della mia anima, per strade diverse.
Che vino ne ho bevuto, ma non ancora abbastanza.
3 Dicembre – Castelnuovo Garfagnana.
Decimo giorno, nuovamente in viaggio.
Altra tappa su per la Toscana, fino a giungere ai piedi delle Apuane.
La Garfagnana mi attende.
La signorina tomtom, che mi accompagna con la sua voce soave, ha stabilito che il mio viaggio attraversi strade e città che non avrei dovuto attraversare.
Non segue certo il principio della modernità.
La strada del Brennero è obsoleta, ma la signorina non è stata informata pertanto mi permette di tagliare a zig zag tutta la Toscana in lungo e largo, e così faccio. E dopo liti e rifiuti e “volta a sinistra alla fine della strada” e ripetuti “supera la rotonda e prendi la seconda uscita, gira a destra, adesso gira a destra, adesso…”, per un itinerario che avrei dovuto percorrere in meno di due ore, mi ritrovo a viaggiare sul mio fedele scudiero per più di tre ore.
Attraverso paesi e citati e treni a scinniri e a acchianari e mi ritrovo a Pisa, che non avrei dovuto visitare a quanto pare.
Luca dopo avermi accolto dice “ma chi minchia di strata facisti?”, oltre ad avermi detto nell’amicizia “Preparati u ficatu” (per non esser lasciato indietro).
Castelnuovo di Garfagnana mi appare spenta nella luce della notte giunta poco meno che alle sei del pomeriggio. E forse tre ore di viaggio stancano e spengono molto di quello che si può vedere.
La torre ariostesca al centro della cittadina è illuminata da un numero improponibile di lampadine velate di fucsia. Evidentemente segnalano la presenza di costruzioni medievali ai piloti di aerei in volo a planare verso la ridente Castelnuovo.
La peculiarità che balza subito agli occhi di questa simpatica cittadina sta nel corpo integerrimo dei vigili urbani. Fermi agli incroci intraprendono una danza ancestrale dall’arcano significato, e gli automobilisti lì, fermi anche loro a contemplare quella meraviglia senza muoversi di un passo.
Luca mi dice, “ora spunta u vigili a cui sto nelle palle, perchè sono l’unico a non capire i segnali che fa.”
Entriamo a far la spesa alla Sma, e mi sento sempre più vicino a casa, mentre si passa dai corridoi carichi di gocciole e macine e patatine a birra a buon mercato, fino a fermarci per un ruspante bicchiere di vino all’osteria che ci vedrà protagonisti nel bere e nel mangiare.
Il posto è carico d’incanto, starà a me, soltanto a me prenderne lo spirito. Luca dice “ca a scriviri pi forza un grande romanzo.”
Tra la torre ariostesca, che vide il sommo come Vicario degli Estensi (così recita la cartina “Guida alla Garfagnana”), e Castelvecchio che, a uno sputo di distanza, conserva la casa di Giovanni Pascoli, l’eco dei suoi versi e del suo “Fanciullino” che tanto mi ha ispirato.
La luce tenue del risveglio mi mostra un bel paesaggio bianco bianco, inizio a stropicciarmi gli occhi nella paura d’esser diventato cieco o roba del genere, ma riguardo dentro e i colori ritornano.
A quanto pare durante il mio viaggio ho portato con me la neve.
Ero carico, stracarico. Ecco perchè pareva non arrivassi mai a destinazione. L’ho portata e silenziosamente lei, nella notte, s’è sistemata a dovere imbiancando le colline che circondano Castelnuovo.
Un gradevole spettacolo, bello a vedersi, freddo, molto freddo a sentirsi.
Mentre il lettore di Luca fa ruotare il nuovo album dei Motorpsycho, il dialetto a tratti incomprensibile di Carmen Consoli e la voce di Eddie Vedder, giriamo un po’ lungo le strade della cittadina.
Un centro storico essenziale con un duomo che a mio dire non avrà grosso spazio nei manuali di architettura e storia dell’arte.
Alcuni vicoli mantengono il sapore antico del medioevo.
Luca mi racconta che durante la seconda guerra mondiale il paese è stato raso quasi interamente al suolo, ecco perchè si vedono moderne palazzine ergersi lungo le vie del centro. La parte alta del paese è, invece, completamente moderna, e funzionale. Un’area vasta, molto vasta se rapportata al numero degli abitanti, è destinata a strutture sportive.
Due campi di calcio.
Uno recente che pare essere un Artemio Franchi in miniatura, piscina, campetti da tennis in terra battuta al coperto. Poi lungo la statale costeggiamo la scuola di Luca, che ha un’architettura da fabbrica meccanica, tanto è brutta.
La povera Italia si scorge anche da queste scelte senza gusto.
Luca sbriga delle commissioni ed io rimango in una piazzetta triste a fumare una sigaretta, coperto fino agli occhi con cappotto e cappuccio, mentre mi passa accanto un tipo sulla sessantina, con la solita camicia toscana a tovaglione, e le maniche tirate su, il sigaro fumante e una decina di mattonelle per braccio, come fossimo in pieno agosto.
Ci fermiamo a sorseggiare un caffè in un bar del centro, nel quale il simpatico barista ci racconta della sua smodata ammirazione per le storie e i personaggi di mafia. Esaltando le loro figure ogni oltre verosimile buonsenso. Il tipo lo dice in modo sorridente ma non posso esimermi dal rispondergli. E gli dico quel che penso, che ci vuol molto più coraggio ad alzarsi al mattino presto e lavorare onestamente, magari con l’enorme difficoltà di giungere a fine mese, che impugnare un’arma qualsiasi e puntarla contro qualcuno.
Forse la mia risposta è troppo banale per i tempi che corrono.
In maniera non molto convinta si mostra d’accordo con me, anche se alla fine chiude dicendo che ci vuole del fegato a gestire certe situazioni.
Ecco, capisco molte cose da questa sua affermazione.
Non sarò mai un criminale. Non perchè non ho l’indole, ma semplicemente perchè non mi ritrovo un fegato ottimale.
Ci vuole fegato.
Ritorniamo per la siesta pomeridiana e lungo la strada di montagna che colega le due parti della città mi soffermo a guardare una vecchina che affacciata alla finestra della sua casa solitaria, in mezzo ad un tornante, trascorre il suo tempo ad osservare il traffico, che forse non ha nulla di meglio da osservare.
“Ma i girini che fine hanno fatto?”
Con questa domanda del professore Barreca si conclude una giornata intensa. Iniziata per le vie di Castelnuovo, continuata per la lunga stesura di Kemonia, passata per le mura di Lucca e conclusa all’Osteria del Fattore.
Ci ritroviamo a girovagare per un breve periodo sulle stradine del centro di Lucca. Fa freddo e la notte scende alla solita ora pomeridiana, non si può scorgere granchè, ma per quel che ci è permesso di vedere Lucca pare essere una bella cittadina. Entriamo nel cuore per una delle porte e impieghiamo più e più giri per ritrovarne un’altra che ci faccia uscire oltre le mura.
Alle otto e mezzo abbiamo appuntamento, si cena.
In Toscana si cena presto, e il freddo ti porta e rinchiuderti in qualche locale, o casa che sia, alla buon ora.
Prendiamo un aperitivo a base di paste sfogliate e uova e ci ritroviamo all’Osteria del fattore.
Uno di quei posti tipici della letteratura di provincia. In cui l’oste ha le sembianze che un oste ricopre nell’immaginario collettivo. Alto, anzianotto e pieno il corpo di salute e alcol.
Rubicondo, direbbero gli scrittori colti.
Entriamo e in compagnia di un’ottima comitiva di giovani insegnanti ci sediamo nel piccolo locale adibito a ristorante. Un’ampia cancellata divide la sala dalla cantina, nella quale quattro botti metalliche a temperatura controllata conservano gelosamente il mosto.
Tagliatelle al cinghiale e befanini al vin santo, e buon vino che accompagna le nostre chiacchierate che scorrono piacevolmente.
Il risveglio del sabato mattino è freddo, e mi fa riflettere sul come talvolta, in maniera assolutamente incongrua, le distanze avvicinino.
Ma è un pensiero che mi lascia troppo presto.
Si va a Lucca, di giorno.
Con la luce del sole le mura della città di Lucca e il fossato verde, d’un verde dipinto in digitale, danno l’idea della storia che rimane lì, anche a secoli di distanza, a ricordarci errori e meraviglie dell’ingegno umano.
Cerchiamo la chiesa di San Michele, che Luca mi dice essere fantastica, proprio al centro della città. Casualmente, dopo vicoli e divieti, ci ritroviamo a passeggiare allegramente col mio scudiero metallico proprio al centro della piazza, ma non c’è possibilità di parcheggio.
Siamo evidentemente fuori moda in quel contesto, urge allontanarsi.
I sensi di marcia ci portano ad uscire oltre le mura e dopo aver chiesto al centro informazioni cartine e indicazioni ritorniamo più sicuri verso la nostra meta.
Nel mezzo del nostro cammin c’imbattiamo “Da Leo”, una simpatica Trattoria piena di gente a tappo, tanto che oltre l’entrata c’è una fila come per Marco Carta in concerto.
Abbiamo fame e decidiamo di fermarci ad aspettare, col risultato che alla fine di tutto non paghiamo tanto ma nemmeno mangiamo abbastanza.
Che dire, non esistono più le trattorie di una volta.
Ritorniamo lungo la via indicataci dalla gentile signorina e troviamo la piazza piena di luci e gente che si ferma nell’enorme mercato natalizio allestito al centro, e la chiesa di San Michele senza nessun vezzo di luce che domina dall’alto silenziosamente.
Sorseggiamo una Ceres e ci godiamo la tranquillità di un sabato pomeriggio, infastiditi da un arietta frizzante che lentamente s’insinua, tanto da farci alzare e rimettere in cammino. Ci ritroviamo lungo piazza Dentelli che accoglie una suggestiva statua di Giacomo Puccini.
Nel momento in cui fermo l’auto per scattare alcune foto, passano di lì due bimbi e per un dialogo simpaticamente naif apprendo dalle loro voci innocenti che “Puccini è uno morto.” A quell’affermazione così perentoria l’altro piccoletto chiede candidamente “Allora dove sta?”, e il filosofo dagli occhietti allegri risponde con sicurezza:
“Sta dentro, dentro la statua.”
Ritorniamo a ristorarci verso casa.
6/8 Dicembre – Castiglione di Garfagnana-Pisa-Torre del Lago-Barga-Castelnuovo Garfagnana.
Ci si abitua a tutto in fin dei conti. Anche al freddo pungente. Così al mattino mi stravacco sul terrazzino della abitazione di Luca e fumo una sigaretta, mentre il gelo cerca di rinfrescarmi le idee.
Perdiamo, a causa del troppo sonno arretrato, l’appuntamento con una locomotiva d’epoca, che qualche ora prima è giunta alla stazione sfumazzando da Lucca.
I nostri amici erano lì, sulla notizia, e hanno degnamente ripreso l’avvenimento.
Noi giungiamo appena appena qualche ora ritardo.
Poco male.
Viaggiamo in lungo e largo per la terra di Garfagnana e ci ritroviamo nel bel mezzo di un bijou paesaggistico.
Isola Santa.
Un antico borgo arroccato sulla vallata, qualche chilometro oltre le colline di Castelnuovo. Una diga crea un suggestivo lago artificiale a margine del quale una manciata di case, ormai inagibili, è vegliata da una chiesa. Ci fermiamo a respirare l’aria incontaminata, ché poca gente si vede in giro. Fotografo un po’ la zona e fumo un paio di sigarette mentre i ragazzi scendono a valle per vedere da più vicino il paese fantasma.
Continuiamo la nostra ascesa all’ombra delle vette delle Alpi Apuane cariche di neve, fino a giungere ai piedi di un altro gioiello urbanistico.
Castiglione di Garfagnana.
Una Lucca in miniatura con torrioni e mura e l’immancabile chiesa di san Michele.
Fino a ieri ero rimasto deluso dalle osterie, trattorie e affini, prima di finire dentro Gli Sfizi della Garfagnana.
Il sogno recondito di ogni buongustaio che si rispetti.
Entriamo per lo stretto arco che immette entro le mura della cittadina e incontriamo un passante al quale chiediamo un buon posto dove poter pranzare.
Il tipo è di quelli da far spettacolo.
Baffi folti alla moschettiere in pensione, camminata ondeggiante e gote rosso semaforo. Confusamente farfuglia qualche incomprensibile frase, fino a quando ci voltiamo sulla nostra sinistra e scorgiamo uno scrigno culinario.
Una enorme scritta verticale indica “Osteria.”
Sembra piena a tappo a guardar dentro, ma non ha che un tavolo da dieci persone e un angolino in cui stretti vanno altri quattro avventori.
Il tavolo “grande” si libera a metà ed entriamo.
Un tipetto dal fare vispo e dal pancione prospiciente ci accoglie col sorriso, il baffo curatissimo e le gote d’un rosso difficile da descrivere. Ci prospetta un menù invitante accompagnato da deliziosi fiaschi di vino locale, scegliamo ravioli al tartufo e cinghiale con polenta.
Ritorniamo all’oste i piatti puliti e si inizia a conversare.
Il tipo racconta una storia divertentissima sul perché i piccoli bicchieri di vino da 10 cl si chiamino del “Borraccio” qui nella zona.
Tempo fa i Borracciai, ovvero i trasportatori su carri, passavano di posta in posta bevendo d’un sorso vino in quei piccoli bicchieri ad ogni fermata.
La moglie dell’oste nel chiacchierare scorge le nostre origini bolzanine e chiede da dove veniamo, ché lei è di Lecce. Durante il pasto una coppia di turisti spagnoli si autoproclama fotografa ufficiale della nostra mangiata e si propone di immortalarci.
Saliamo ancora in cerca della fortezza ma le luci del giorno scivolano oltre le Alpi e quelle che dovrebbero segnalare il castello rimangono spente.
Ritorniamo a casa stanchi e sazi.
Il mattino del lunedì è uggioso e la nebbia avvolge Castelnuovo, nascondendoci la vallata.
Abbiamo programmato un lungo giro turistico e un po’ di pioggerellina insistente avvolta nella nebbia non ferma i nostri programmi.
Al suono roccioso di Sheer Heart Attack, c’incamminiamo, dunque, verso Pisa.
Che non è Lucca e si capisce ben presto.
Lungarno, però, ha un fascino da non sottovalutare. Percorriamo alcune vie cercando di avvicinarci più possibile al clou turistico e senza accorgermi porto il mio fedele scudiero meccanico ad un passo dalla torre pendente.
Parcheggiamo accanto a frotte di carabinieri e vigili. Ordinatamente.
Insieme a Luca osservo il numero sterminato di turisti che, come formiche, affolla il prato antistante il duomo. Non si può evitare di fotografare quel complesso monumentale, e non si può fare a meno di soffermare lo sguardo verso la strana costruzione che pare voler scivolare giù da un momento all’altro.
Le voci dei turisti, ammirati e affascinati da quello spettacolo, s’accavallano una sull’altra creando una sorta di babele linguistica.
Ci rimettiamo in strada diretti a Torre del Lago, mentre Luca sempre più perplesso mi chiede “Ma ddra, chi c’è?”.
Come diceva il bimbo qualche giorno prima a Lucca, vado alla ricerca dell’anima del morto che stava dentro la statua.
E corro e faccio sorpassi azzardati, a quanto dice Luca, trattenendosi forte al passamano. Probabilmente ha ragione, ma a ben vedere la mia vita è un azzardo, perché cambiarla…
Abbiamo programmato la signorina Tomtom affinchè ci conduca al centro del piccolo paese sul lago Massaciuccoli, e il centro risulta essere una piazza desolata, sterrata, ai margini della stazione ferroviaria.
Ci scambiamo uno sguardo perplesso, e deluso.
Del lago non si ha vista, e men che meno del museo Villa Puccini.
Ritorniamo per la via principale e un cartello ci invita a svoltare a sinistra se vogliamo arrivare al lago. Percorriamo il lunghissimo viale Puccini, incontrando opere ad ogni incrocio, passando sotto i piloni dell’autostrada che manifestano il rombo della loro massiccia tenuta, finchè lo sguardo viene rapito da un’ecomostro dalle dimensioni ingombranti.
Sembra uno stadio di calcio, dalle gradinate blu, messo lì da una mano bizzarra e kitsch, proprio a pochi passi dalla battigia.
Non è un impianto sportivo, ma un auditorium all’aperto.
Dentro quell’ecomostro si tributa ogni anno il genio del Maestro nell’ambito del Festival Pucciniano, senza chiedersi quanti volte al giorno il musicista si rivolti dal disgusto dentro la sua tomba.
Soltanto alcuni metri più a destra.
Ammiriamo il lago, che nonostante le sfumature invernali mostra un fascino particolare. I toni grigi del cielo si specchiano increspati sulla superficie d’acqua, che a ritmo lento scuote le poche imbarcazioni ancorate sui piccoli pontili.
Il museo Puccini apre al pubblico intorno alle tre.
Trascorriamo il tempo scattando qualche fotografia al panorama, fumando altrettante sigarette, e poi via, dentro un ristretto viale che conduce ad un’abitazione in stile liberty che nulla ha dell’aspetto di una villa.
Ma talvolta quel che appare non è, e decisamente questo è il caso in questione.
Un’anziana signora dagli occhi ricchi d’azzurro e i capelli candidi, con fare gentile, ci accoglie al cancello d’ingresso, mentre un simpaticissimo gatto le gira curioso tra i piedi.
Entriamo nella piccola veranda che accoglie alcune teche contenenti cimeli del musicista. Lettere autografe indirizzate a Toscanini, berretti alla marinara, bombette. Un marchingegno divertente ci illustra attraverso la voce carica d’affanno della simpatica signora la storia dell’abitazione, di quando è divenuta Museo, e di cosa contengano nel dettaglio le camere che volta per volta ci accingiamo a visitare.
All’interno di un museo si sa non è permesso fotografare, né effettuare riprese, ma non posso che cedere alla tentazione di provare uno scatto verso l’angolo dal quale ha preso inizio parte della musica che più apprezzo.
Un piccolo angolo costituito da un pianoforte d’epoca Foeser, sul cui leggio prende polvere un’antica partitura vergata a mano dal compositore e rimasta incompleta, una sedia girevole, e un tavolo in noce, sul quale completava le partiture delle opere.
Scatto accertandomi di non esser sgamato e solamente giunto fuori dalla casa mi accerto del risultato. Ecco, Mg direbbe di certo che lo spirito di Puccini mi ha impedito di profanare quell’intimità. Fatto sta che la foto è venuta mossa da non capirci granchè, ma ai miei occhi mantiene un fascino indescrivibile.
Continuiamo nel nostro percorso guidato. Mentre il gatto zampetta da un cimelio all’altro. A lui è concesso, anzi a lei.
Doretta.
Le teche si susseguono, d’ogni forma ed epoca, e nascondono oltre i vetri cimeli di genere diverso. Fotografie, altri stralci di lettere autografe, ritratti dei cantanti che si sono succeduti nei ruoli principali delle opere di Puccini, busti in bronzo e marmo, e una pagina della partitura di Turandot rimasta incompleta a causa della morte del maestro.
Riguardo l’epoca della malattia è conservata una lettera nella quale Puccini, sconsolato, rimarca che la maledetta febbre non ne vuole sapere di lasciarlo in pace.
Ci spostiamo in un altra camera nella quale i cimeli assumono la sostanza della quotidianità di un uomo, non più rimandi alla grandezza del compositore, delle sue opere, ma un’attestazione della natura semplice di un’esistenza comune.
La camera di Giacomo, la stanza della caccia.
In un armadietto comune a tanti viene custodita la collezione di fucili, all’angolo, in un’altra teca in basso, gli scarponi che indossava nelle uscite, e alcuni animali imbalsamati posti sopra degli armadietti.
Uscendo da questa stanza e oltrepassando un piccolo disimpegno nel quale riposa chiuso un altro pianoforte del maestro, si giunge alla cappella di famiglia, e l’aria là dentro ha un sapore grave, mistico.
Anche per un ateo come me. Quasi inconsapevolmente accenno un segno cristiano, e rimango muto, e triste.
Forse tutto quel che ho visto è business, ma soffermandomi a parlare con l’anziana signora viene fuori quello che avevo pensato fin dall’inizio.
La nipote che alimenta il mito del nonno, oltre i numerosi palchi e le platee che abbracciano quasi quotidianamente la sua opera, e quella donna anziana con la voce piegata dal tempo mi saluta affettuosamente augurandomi buona fortuna.
Al mattino del giorno dell’immacolata Luca si sveglia prima del solito e mi annuncia con stupore che qualche chilometro più a valle una ragazza è stata uccisa.
Consideriamo tristemente che il fidanzato confessi al più presto prima che passino in rassegna tutti i napoletani, i siciliani e i neri della zona.
Così accadrà qualche ora dopo.
L’azzurro del cielo pervade ogni spazio senza che le nuvole passino da lì a lasciarci una voglia di pioggia.
Soliti cinque minuti refrigeranti sul terrazzino e poi scegliamo di fare un fioretto. Rimarremo a pranzare in casa, senza bere una goccia e mangiando riso in bianco.
Però ci sono i panni da lavare. Dunque usciamo.
Ci avviamo lungo la strada che porta alla lavanderia a gettone.
Mettiamo le nostre cose e azioniamo il programma per cotone delicato, perplessi, ma convinti e speranzosi che vada bene anche per jeans e mutande. Abbiamo 33 minuti da impiegare per la colazione prima che l’aggeggio che come un ossesso inizia a roteare sputi fuori i nostri panni.
Colazione cappuccino e pasta, una per ciascuno.
Ritoraniamo quando mancano appena 10 secondi al completamento del lavaggio. Tempismo perfetto. Altri 30 minuti per l’aggeggio che ascuga.
Che fare?
La spesa certo.
Però è una giornata d’incanto, e il fiume scorre gaio, e tutti sono in festa.
Dovremmo rinchiuderci in casa a pasteggiare con acqua riso e tonno?
No, non siamo molto credenti, il nostro mancato fioretto ci manderà all’inferno. Ma non per oggi.
E poi ho tanti di quegli arretrati da scontare. Sono certo che chi sia alla porta mi attenda con un fascicolo stracolmo di contravvenzioni.
Aggiungo anche questa.
Si viaggia verso Castelvecchio, patria del Fanciullino, si continua per Barga, minuscolo borgo nel quale si mangia bene, dicono.
Entriamo dal minuscolo arco che immette nel centro del paesino. Il vicolo è strettissimo, il mio scudiero azzurro lucente scalpita e inizia a nitrire innervosito, si passa a stento. Continuiamo a salire con difficoltà lambiamo gradini e zerbini e vasi ornamentali delle abitazioni al passaggio, e strofiniamo col nostro azzurro le lenzuola candide lasciate a stendere.
Saliamo ancora. Sembra che quel vicolo angusto sia la porta per il paradiso, ma d’un tratto davanti ai nostri occhi si apre un percorso infernale.
Il baratro.
La strada perde gli amati ciottoli che avevamo cavalcato fino ad allora e si tramuta in una lunga, interminabile, scalinata a scendere.
Una scala.
Al piccolo trotto il nostro scudiero ci porta in salvo oltre quel labirinto medievale. Che tutte le osterie, trattorie e pure i ristoranti sono pieni a tappo.
Il primo mi chiede “Ha prenotato?”, “No”, “Mi spiace non ho posto.”
Così per altri tre, fino a quando entro e anticipo l’oste.
“Non ho prenotato.”, “Mi, spiace siamo al completo.”
Ma nonostante tutti questi rifiuti non possiamo desistere.
Se sei realmente convinto di un qualcosa nella vita non puoi fermarti ai primi rifiuti.
Così non ritorniamo sulle nostre decisioni, c’è un fioretto da trasgredire fino in fondo. Ci inerpichiamo per le colline della Garfagnana mentre l’eco del fruscio del Serchio che scivola lungo il suo antico letto s’allontana.
Passiamo ponti scricchiolanti, che a stento sorreggono il peso dello scudiero, e vallate e piccole cascate che perdono la loro linfa lungo la strada.
Varchiamo sentieri in cerca di una cazzo d’osteria.
Bivi oscuri, discese vertiginose, fino a quando ad un passo dalle nuvole, che hanno fatto capolino nel cielo meno limpido rispetto al mattino, ci fermiamo presso un piccolo ostello. Da dentro sbucano sulla strada rumori e profumi, ma nessuno viene ad aprirci. Sembra un luogo infestato da fantasmi, la boscaglia fitta filtra la luce, e la vallata fa ombra continua, ma i nostri stomaci sono in guerra e pronti a battagliare.
Finalmente un tipo capisce che non abbiamo capito.
La porta andava spinta con forza, ché quella è zona di vento che penetra violento dentro le abitazioni.
Siamo pronti al nostro peccato quotidiano.
E pranziamo abbondantemente, e iniettiamo del vino fresco dentro le nostre vene. E parliamo a ruota libera, come accade in quelle conversazioni guidate dalla spontaneità di una sana bevuta.
Ridiscendiamo a valle inseguendo lo zampillare del fiume che ci accompagna fino a casa.
Il mio viaggio in Garfagnana si chiude con un piatto di mezze penne alla vodka. Una cena tranquilla, e poi ad ascoltare l’ultimo pezzo dei MDJ, in anteprima, con Luca che è in giuggiole.
“Troppo bello cumpà.”
Saluto l’oste del Fattore, le mura di Lucca, lo spirito di Puccini, e la valle della Garfagnana, Fabrizio e Manuela, e Gigi col suo Donald Mcdonald (“Che ce ne sono otto in tutta Italia”, e sti cazzi…).
E Luca.
Apposto Compaaà.
9/16 Dicembre – Strade della Toscana-Borgo S.Giovanni-Milano-Lodi-Pavia-Appiano-Como-Crema.
Quindicesimo giorno. Di nuovo in viaggio. Verso un altro letto in cui dormire. Diverso dal mio.
La strada sale tortuosa sulle montagne. Col mio scudiero mi ritrovo ad affrontare una di quelle tappe da giro di Italia in cui le gambe si piegano dalla fatica e dalla pendenza dei tornanti che si inerpicano verso l’alto. Arranchiamo tra la seconda e la terza che non riesce a spingere più di tanto. La signorina Tomtom ha deciso di mostrarmi un panorama mozzafiato, e per la prima volta da quando viaggiamo insieme le sono grato.
Mi ritrovo a toccare con mano il cielo terso dalla vetta di un monte. Come in un quadro dai colori folgoranti, all’uscita di una galleria scavata nella roccia completamente al buio, gocciolante e dall’asfalto sconnesso, ritorno alla luce del sole e il mio sguardo domina tutta la vallata. Mi fermo pericolosamente in curva, ma non posso fare a meno di fissare quella vista in una foto.
Metti caso la memoria inizi a farmi brutti scherzi.
Il viaggio verso la bassa padania procede tranquillo al ritmo incessante di Great Hosannah.
E ritorno a Borgo dopo due anni e mezzo.
E stavolta fa un freddo cane.
M’infilo in un’autostrada intasata che sfreccia verso nord, direzione Milano. A qualche chilometro dalle porte della città, nel cielo sereno, si scorge una cappa densa e omogenea di fumo grigio. Quello è il segnale inequivocabile che mi appresto a raggiungere la capitale lombarda.
Che annega quotidianamente nello smog.
Milano corre veloce, forse troppo.
Il cielo è terso, ché ci si abitua ben presto al velo di gas, la temperatura sfiora gli undici gradi, qualcosa di straordinario per il periodo. Ma la gente del posto non sa che tutta la neve che mi portavo dietro l’ho lasciata in Garfagnana.
Giro in continuazione, portato per la strada dal mio inseparabile scudiero. Talvolta scegliendo la direzione altre volte facendomi sospingere dal flusso inquietante di automobili che ronza per le strade della città. Mi ritrovo con un languore che mi devasta lo stomaco. Ma non è romanticismo, semplicemente fame. Riesco dopo non so quanti tentativi ad accostarmi presso una caffetteria. E mi avvento su tutto quello che è commestibile. Ripristino il mio equilibrio interiore e risalgo sullo scudiero che ho lasciato sul ciglio della strada. E la strada ci conduce nel cuore della città, fin dentro Piazza Duomo. Il sole scende leggero sulle guglie e rende la visuale davvero affascinante. Niente del grigiore metropolitano si scorge.
In questo contesto d’incanto mi sento gridare alle spalle.
“Hey tu, belin!”
Una tassista dal fare incazzato che mi indica col dito. Mi accorgo solo in quel momento d’essermi infilato nella corsia di sosta dei taxi. E col mio berretto da capostazione la tipa m’avrà certo scambiato per un concorrente abusivo. Le spiego a gesti che si sbaglia, e lei a gesti argomenta le sue posizioni che intuisco inamovibili. Fatto sta che alla fine una vigilessa candida e disponibile (a darmi informazioni) mi dice che ad ogni modo mi arriveranno una frotta di verbali, che potrò contestare, conclude quasi a consolarmi.
Bah.
Continuo cercando il teatro più celebre d’Italia e non nascondo la mia delusione nel vederlo sciatto, quasi fosse la struttura di una filiale di poste italiane. Ma è la Scala cazzo.
Sarà…
Il mio viaggio frenetico per la città continua e mi porta al tempio della nuova religione che si erge maestoso e solitario qualche chilometro avanti.
San Siro.
Protettore di tutti noi.
Concludo con un buon caffè il mio primo tour per la città.
Mi riverso sulle piatte strade della bassa padania. Faccio colazione in un simpatico bar di Lodi, proprio di fronte un piccolo torrione. Una grossa insegna sulla mia testa indica che qualche metro più in fondo svoltando sulla sinistra troverò la conad.
Necessaria ad approvvigionarmi di vivande e sciocchezze.
Faccio un giro tra corridoi di scaffali ben ordinati che espongono mercanzia d’ogni genere e ne esco con un paio di bottiglie di vino e qualche grissino mordi e fuggi. Risalgo sul mio scudiero e mi indirizzo verso Pavia, i miei amici dicono sia una cittadina deliziosa.
E realmente lo è.
L’impressione è quella di una realtà tranquilla curata fin nel minimo dettaglio, con un centro storico che fa respirare mattonella dopo mattonella i suoi trascorsi storici. E il traffico che non si sogna per nulla d’inseguirti, né di sospingerti da nessuna parte.
La giro in lungo e largo, mi soffermo a fumare un paio di sigarette davanti all’immenso castello Visconteo che ospita una mostra di pittura in cui Velasquez la fa da padrone. Respiro l’aria frizzante dei navigli e osservo la gente che, armata di tutto il necessario, si accosta con l’immancabile bicicletta sulle sponde del fiume e, lanciata con cura la lenza sull’acqua, attende con pazienza i frutti della sua esca.
Continuo il giro turistico fotografando alcuni scorci suggestivi della cittadina, mentre una pattuglia di carabinieri mi scruta con sospetto perché accostato al loro comando stazione sono intento a puntare la mia memoria fotografica verso la chiesa che sta accanto.
Seguo alcuni cartelli monumentale che mi conducono in una piccola piazza silenziosa, come se il traffico cittadino avesse timore a entrarvi. All’ombra di alcuni alberi dalle foglie ingiallite una chiesa umile accoglie le spoglie di S.Agostino, a quanto leggo, là dentro nel chiostro, che non riesco a visitare.
Dopo un aver perso il conto di caffè e sigarette ritorno a casa.
Si cena con risotto ai funghi, e pandoro al forno intinto su una crema pasticcera molto calorica.
Una bomba atomica che deflagra il nostro sonno.
E il vino abbondante ci accompagna verso il sonno ristoratore.
Borgo S.Giovanni è un centro minuscolo che nell’arco di una lunga strada racchiude la sua piccola realtà quotidiana. Un paio di bar, una trattoria sovraffollata, un “Non solo pane” nel quale ci si ritrova un po’ di tutto e il Centro. Che non indica il “centro” urbano ma un piccolo luogo di ritrovo per i ragazzi del luogo in cui un simpatico calabrese accompagnato dalla moglie silenziosa e operosa gestisce l’essenziale bar.
Ritorno a Pavia.
Mi sono messo in contatto con un amico d’infanzia. Prendiamo una birra fresca in un pub, chiacchieriamo delle difficili condizioni della realtà lavorativa che m’investono in pieno, ma d’altra parte sono in viaggio, perché pensare ai miei problemi, l’ho lasciati giù. Scopro, per altro, che mi si cerca da qualche parte e si pensa che io sia svanito del tutto. Ermal, che arriverà in serata, mi chiama. Ha anticipato la partenza e sarà alla stazione di Lodi per le sette.
Toccherà a Lucio andarlo a “prelevare”.
Dopo tre anni ritrovo il sorriso sarcastico di Ermal che ci raggiunge dalla fredda Torino.
Serate tranquille, senza calma di vento, solo passaggi e passaggi, passaggi di tempo.
E cibo a volontà.
Ancora a Milano.
Pranziamo tutti insieme. A margine di piazza Loreto estranei al traffico folle che toglie il respiro. Entriamo in un piccolissimo ristorantino gestito da simpatici e frenetici cinesi che presenta un menù scarno ma dal sapore accettabile e a buon prezzo.
Caffè sigaretta davanti all’ufficio di rappresentanza del “famosissimo e influentissimo” Lele Mora che accoglie belle signorine in parata.
Si va in visita al Castello Sforzesco.
Sede di una serie innumerevole di mostre e iniziative.
Davanti l’ingresso principale stazionano un bel po’ di simpatici afroamericani addobbati di monili folcloristici. Ci avvicinano sorridendo e mostrandoci la loro mercanzia. Con alcuni braccialetti che sono di buon augurio. Come sempre dico che siamo viaggiatori senza un soldo ma i tipi non desistono, rispondono che non vogliono denaro e ci legano ai polsi sti braccialetti insignificanti. Alla fine dell’operazione di vestizione mi par giustu allungare un euro al tipo, che si dice scontento.
Non va, troppo poco.
Lo guardo di sbieco ma lui si rivolge a Ermal dicendogli “E tu, tu cosa mi dai?” il mio amico gli mostra qualche monetina di rame, e il venditore sconcertato “No, no, no, non va. Dammi cinque euro e ti do il resto.” Non sappiamo se sorridere o mandarli a fanculo. Alla fine raccogliamo un altro euro e cinquanta e li mandiamo a fanculo.
Ché simpatici lo sono stati per poco.
Entriamo finalmente nell’immensa Piazza d’Armi. Affollata da turisti dagli occhi sgranati. Cerchiamo la mostra che riguarda Michelangelo e la sua “Pietà Rondanini”, e dopo una tranquilla passeggiata fotografica ci accorgiamo che è lunedì. I musei stanno chiusi il lunedì.
Poco male, continuiamo la nostra lenta passeggiata per il piazzale giungendo alla Corte Ducale, che accoglie una statua gigante raffigurante la “Madama Butterfly”. In fondo a destra è allestita una mostra che la vede protagonista.
Sotto una piccola arcata sta seduto un cantante che, accompagnandosi alla sua chitarrina, intrattiene i passanti con canzoni d’ogni genere.
Sveglia presto, sono già le undici e ci indirizziamo verso il profondo nord. Temperatura polare. Ma gli allenamenti ad Appiano Gentile sono già iniziati, siamo in ritardo. Saliamo per la tangenziale ovest verso l’autostrada laghi e usciamo alla ricerca del villaggio sportivo la Pinetina. La signorina Tomtom non ci viene granché in aiuto, ritorniamo ai mezzi tradizionali.
“Accosta e chiedi.”
Un tipo porta il suo pastore tedesco a spasso, e ci indica un paio di rotonde a cui svoltare a destra e qualche altro bivio da superare. In maniera incredibile le indicazioni ci riportano dritte verso il campo d’allenamento dell’Inter. Ma con nostra amara constatazione i cancelli sono chiusi al pubblico, che sparuto attende fuori al freddo e al gelo.
Rimaniamo alcuni minuti, ché ci dicono hanno già finito tutti e stanno sfrecciando da lì con i loro bolidi rombanti. Alcuni tirano dritto accelerando, altri, più benevoli si accostano a firmare autografi e permettono d’essere fotografati.
Resistiamo ben poco ché il freddo ci avvolge e poi è passata da tempo l’ora di pranzo e i nostri stomaci ce lo ricordano rumoreggiando.
Alla ricerca di un posticino che li renda più allegri. Lungo la statale un simpatico ristorante tinto di nerazzurro ci invita ad entrare.
Dopo un gustoso pranzo si va a Como.
“Quel ramo del lago di Como che volge al mezzogiorno tra due catene incontrastate di monti…”
Chissà quale ramo vedeva Manzoni. Ce ne sono a bizzeffe, e alberi e case con i piedi nell’acqua, che senza grandi sussulti si muove lenta.
Mentre il nostro respiro riscalda l’aria, ma poco riesce a fare perché l’umidità e una leggera brezza che spira spezzano le ali ai nostri entusiasmi.
Ma il lago è una meraviglia.
L’imbarcadero dal quale salpa il traghetto che fa la spola con la riva opposta, le barchettine d’ogni forma e colore che, entrate in letargo per il rigido inverno, attendono l’arrivo della bella stagione e i gabbiani che sembrano divertirsi da matti a rincorrersi, puntare l’acqua limpida, sghignazzare passando sopra la testa dei pochi spettatori che li ammirano giocare.
Calma e freddo pervadono la gente del posto.
Scendiamo verso la Villa dell’Olmo che è uno spettacolo da non perdere. Entriamo dalla cancellata principale sulla ghiaia dell’immenso parco alberato e curato in ogni dettaglio e diamo un’occhiata in giro.
Poi, dopo una serie di fotografie artistiche all’imponente architettura, risaliamo sullo scudiero metallico riscaldato. Proviamo a circumnavigare il lago e passiamo attraverso stradine e borgate deliziose e ville splendenti chiuse agli sguardi curiosi. Niente Clooney, né Canalis in tuta che vanno a far la spesa. Sarebbe da pazzi con queste temperature uscire in tuta a ben vedere.
Mattinata tranquilla, sveglia silenziosa, un piatto di penne rigate fumanti e di nuovo in strada per una gita fuori porta. Si va a Crema. Piccola cittadina dell’interland, curata e piena zeppa di chiese, con una piazza centrale deliziosa e ghiacciata. Chiedo informazioni alla polizia locale ma scopro che il tizio è in trasferta. Viene dal comune di “Calcio”. Da non crederci. Proviamo a fotografare la sua auto ma il tipo ci guarda storto. Continuiamo il nostro viaggio rilassante verso Lodi.
Un amaro al solito bar. Sospettiamo che le tipe abbiano firmato una convenzione con la signorina Tomtom, perché lo indica come il centro della cittadina lombarda. Giriamo per la città soffermandoci nella piazza assediata dal gelo, con la gente che sgusciante dai ciottoli viscidi entra nei negozi sotto i portici per gli acquisti natalizi o semplicemente per sfuggire al gelo.
17/21 Dicembre – Borgo-Lodi-Sassuolo-Modena-Strada per Montieri
Lieve scende e senza rumore si posa sull’asfalto. Fiocco dopo fiocco, uno sull’altro. Finalmente la neve è giunta a Borgo, la si attendeva da alcuni giorni.
Altri speravano che ritardasse ancora un po’ l’annunciato arrivo.
E invece, nella notte di mercoledì, senza squilli di trombe che ne segnalano la discesa, viene giù dal cielo e ammanta di candore ogni cosa nel piccolo borgo lodigiano. Il mio scudiero metallico viene completamente ricoperto, e per un istante pare abbia deciso di mutare il colore della sua pelle, ma bastano un manico di scopa e un po’ di abilità per riportarlo all’azzurro naturale.
Sulle strade, a mattinata inoltrata, non rimane che qualche segno solitario sul ciglio del silenzio notturno, si transita. Almeno da quelle parti. Il “Ciss viaggiare informati” non ci aggiorna su nevicate tempestose lungo il tratto dell’A1, dunque scegliamo di partire come previsto.
Accompagno Ermal alla stazione di Lodi, prenderà il treno diretto a Milano, e poi ritornerà a casa, nella sua Torino.
Chissà quando ci ribeccheremo. Sta di fatto che per qualche giorno abbiamo ricreato l’ambiente degli anni universitari, con diverse esperienze sulle spalle, col tempo legato agli orari di lavoro, o schiavo di un lavoro che non ne vuole sapere di presentarsi all’appello.
Imbocco l’autostrada diretto a Sassuolo.
Il viaggio scorre liscio tenuto sveglio da “A night at the opera”.
Giungo a Sassuolo, meglio dire a Sciasciuoolo, in poco meno di due ore e mi fermo al primo bar, ché il freddo di giornata stimola la diuresi, molto più dell’acqua Rocchetta. Chiedo un caffè ad una barista che avrà perso la grazia femminile da molto tempo, senza che nessuno gliel’abbia fatto mai notare, e chiamo Benny, che, com’è proprio del personaggio, non risponde. Inizio a pensare che tirerò dritto fino in Toscana con qualche giorno d’anticipo quando il mio cellulare squilla.
“Unni si juntu?”
A Sciasciuoolo.
Lo raggiungo nell’accogliente abitazione che divide con altri due insegnanti e si va alla Coop per la spesa. Il viaggio verso la Coop sembra una odissea dei tempi moderni. Il supermercato dista da casa qualche centinaio di metri, ma i ragazzi sono sempre andati a piedi pertanto col mio scudiero metallico non riescono proprio a raccapezzarsi.
“Sono sicuro che si debba svoltare qui”, dice per l’ennesima volta con cipiglio supponente il coinquilino del mio amico, sbagliando puntualmente per l’ennesima volta. A questo punto prendo in mano la situazione e chiedo aiuto all’oracolo signorina Tomtom che tutto sa, e che prontamente ci conduce verso la retta via.
Ceniamo in compagnia di una vispa bottiglia di corvo rosso.
Benny mi piazza in una camera singolare. Dalla finestra sbuca dentro un cavo di rete che la proprietaria di casa ha favorito loro in attesa che la connessione ad internet sia attiva. Dunque la mia camera accoglie un letto ancora coperto da cellophane, un asse da stiro e un tavolino telematico che mi darà tanto da ridere…
Al mattino, prima d’andare a scuola, Benny prova ad organizzare il week end e chiama un amico che si trova a Parma. Da questo momento inizia una due giorni massacrante sotto ogni punto di vista.
La neve giunge copiosa, altro che candida, altro che silenziosa, strombazza per le strade rendendole viscide e pericolose. Ma alle otto della sera non ci sono più autobus che collegano Sciasciuoolo a Modena, ci tocca, tra le difficoltà, di arrivare alla stazione centrale della città. Lentamente il mio scudiero raggiunge la meta, carichiamo dentro il tipo e ritorniamo alla base.
Il tempo per riprenderci un po’ e di nuovo in strada.
Pizza servita in una pizzeria da asporto, che pare essere un controsenso ma così non è. Tre siciliani che dialettamente si divertono a raccontare storielle e due tipi che ci fissano con insistenza. Sembra vogliano rogne fin quando uno dei due, il più piccoletto dice.
“Ma u guastirddraru c’è ancuora?”
Ecco, cinque siciliani che si ritrovano a raccontare storie masticando sotto i denti plastica di pizza, immangiabile.
Benny ha vissuto due anni a Modena da qualche settimana ha cambiato casa, e conosce poco Sciasciuoolo. Andiamo a zonzo per un po’ bevacchiando qua e là fino a quando ci indirizziamo al Temple bar, ma non siamo a Dublino. Più semplicemente in una vecchia stalla riconvertita nel locale che accoglie un po’ di bella gioventù del luogo. Pasteggiamo con del buon chianti rosso e proviamo a giocare a scopa. Proviamo perchè ci consegnano delle carte difficili da decifrare, sono piacentine ci spiegano delle simpatiche ragazze disturbate nelle loro alte argomentazioni sui massimi sistemi. Dopo aver considerato per un paio di giri il re di spade la nostra donna scopriamo che anche nelle carte da gioco può esserci crisi d’identità sessuale, l’otto ha i baffi ma per loro è comunque il fante.
Ecco il fante non la donna…
Fumiamo una sigaretta a pochi passi dall’immenso parco che imbiancato di neve crea molta suggestione, ma per le strade la neve pare non attecchire, scende rimane qualche minuto e si tramuta in acqua, poco male penso giungendo allegramente a casa.
Quando si va in giro, in vacanza direbbe qualcuno, si vengono a creare due categorie sul come approcciarsi al periodo… Una che intende la vacanza come tour de force, dunque levataccia alle cinque del mattino, prima che apollo metta il naso fuori col suo carro, pronti a visitare tutti i musei, anche quelli chiusi, e l’altra categoria, quella di cui mi sento orgogliosamente portabandiera, che prende la vacanza con aria più soft, e che, dunque, al mattino ama riposare il corpo.
Ma non sarà così a Sciasciuoolo.
Sono le sette e trentacinque! Le sette e trentacinque, che se non fosse stata per quest’occasione nemmeno sarei riuscito ad immaginare in che posizione dell’orologio potesse trovarsi quest’orario.
Alle sette e trentacinque Benny mi chiama tutto preoccupato bussando energicamente alla porta della camera che mi accoglie, peraltro spalancata per l’insopportabile calura data dal termosifone a fusione nucleare che troneggia nella stanza e che per nulla al mondo mi concede d’essere spento.
“Affacciati.”
Ecco, dalla finestra della cucina un meraviglioso affresco, tutto in bianco, non c’è un colore diverso a volerlo pagare oro. E il mio scudiero completamente sepolto, prima del tempo, da trenta centimetri di coltre bianca. Bisogna liberarlo prima che il ghiaccio lo immobilizzi definitivamente bloccandogli le giunture. L’allegra brigata discende sulla strada scivolando qua e là, armata da secchio ricolmo d’acqua e scopette varie che sostituiranno le pale che non abbiamo.
L’operazione richiede una buona mezzora.
Liberato lo scudiero, che riacquista almeno parzialmente il suo blu brillante, ci avventuriamo verso il centro della cittadina derapando come se il mio ronzinante subisse le conseguenze di una brutta sbronza.
Ma non ha bevuto nulla la sera prima, lui.
Nella piazza centrale di Sciasciuoolo colazioniamo con delle paste dal sapore ripugnante (e in quest’occasione un rigurgito malinconico per il mio paesello m’assale) e ci sorbiamo le grandi manovre degli inservienti comunali che, nella neve soffice spostata ai margini dal piccolo e sgusciante spazzaneve, provano ad allestire un albero di natale e roba affine. Mentre Bocelli ci trita le orecchie con i suoi rinnovati canti di Natale.
In un clima eccessivamente frizzante, – 2 gradi.
Accompagniamo Benny a scuola e ritorniamo a casa provando a chiudere occhio, ma ci attendono i due solerti coinquilini che, al profumo di coccolino, ciabattano per il corridoio, sbattono le porte di un appartamento fatto con porte che vanno chiuse soltanto se sbattute con estrema forza, quando va bene, e complessivamente rompono la minchia con problematiche assurde che riescono a creare alla bisogna.
Qualche minuto riusciamo a dormire ma giunge già il tempo del pranzo. Poi, saltate le prove del gruppo R&B di cui Benny fa parte, raggiungeremo Modena nel primo pomeriggio.
Il viaggio è lento e lo scudiero scivola, non metaforicamente ma in maniera più che reale, (tanto da ricordarmi un viaggio musicale di qualche anno fa) verso Modena. Giungiamo al Duomo e al freddo polare che s’insinua sotto i portici aperitivizziamo il nostro sangue. I mercatini di chincaglieria e piccoli cimeli da collezione riempiono lo spazio ai margini della piazza completamente coperta di ghiaccio. Scorgo uno stand pieno zeppo di vinili e mi butto come un bambino.
“Ma hai come ascoltarli?”
“No.”
“E allora che cazzo te ne fai?”
“Li appendo alle pareti.”
I mie compagni di viaggio mi guardano con sospetto e mi lasciano a spulciare avviandosi verso il bar per l’ennesima volta.
Ritrovo un po’ di tutto dentro quei contenitori di plastica.
Battisti, Emozioni, lo compro e lo regalo ai miei!
“Quanto viene?”
“Cinquanta Euro.”
“Ehm.”
Pink Floyd, The wall, ho Dark Side comprato da Jebe e adesso ricambio regalandogli questo gioiello dal sapore antico.
75.
…
Queen, Sheer Heart Attack, che appena lo vedo quasi salto in aria, vecchio, usato, ascoltato, sarà mio non c’è dubbio, non può avere un prezzo esagerato, è logoro, me lo regalo per natale, senza dubbio.
“Quanto?”
“45.”
“Ehm.”
Poi arriva l’album degli album, là dentro, dentro questo quadrato di cartone riposa Bohemian Rhapsody, sono anni che lo cerco.
“65”, mi dice il tipo, “è una nuova edizione”, bleah, e io che ho comprato per 6 euri e 50 “Sgt Peppers lonely heartclub’s band”, a Stoccolma!
Arriva il turno degli Zeppelin.
IV.
Manco ci penso a chiedere, ma d’istinto mi volto verso il tipo che sconsolato adesso nemmeno parla più, alza la mano e tiene ben in vista quattro dita.
40 euro.
Scorgo Oro incenso e birra di Zucchero, quasi quasi.
15.
E magari va.
Dunque con una spesa complessiva di 250/300 euri avrei arredato le pareti della mia camera, che rimarranno desolatamente per quello ancora per un bel po’.
Alla fine tristemente lascio lo stand col tipo che pare più sollevato dal mio saluto, che ricambia col palmo della mano ben aperto.
50 euro?
Giriamo e rigiriamo per il centro fino ad incontrare l’immancabile Castelbuonese, con il quale ci scambiamo con sorpresa meraviglia “Ma tu ca chi ci fa?”, e giungiamo nel locale fighettino. Non solo a Palermo attorno al locale dai prezzi esorbitanti sorgono, come piccoli funghi, i supermercati alcolici a prezzi stracciati, anche qui nella ridente e freddissima Modena. L’alcolismo non ha colori né appartenenze territoriali, è trasversale, così come i piccoli empori che ti vendono Ceres ghiacciate a tre euro e cinquanta.
L’ultimo mattino a Sciasciuolo si apre con i fuochi d’artificio. Alle sette, stavolta soltanto sette, si odono per i corridoi dell’appartamento le imprecazioni dei due coinquilini. A quanto pare non c’è più acqua. Scendono rombando a protestare dalla proprietaria, chiamano qua e là, fino a quando si consiglia di riscaldare i tubi dell’acqua con una stufetta, la temperatura rigida li avrà congelati. Risultato: i tubi esplodono e l’acqua esce a fiotti.
E io per l’ennesima volta non riesco a dormire.
Risultato complessivo: 72 ore senza sonno.
Il sole alto riscalda l’ambiente e la temperatura gradevole di -8 (-8) gradi ci accompagna verso il mezzodì. Viste le intemperie passate e quelle che si attendono approfitto del cielo azzurro, e rifatta per l’ennesima volta la valigia, risalgo sul mio inseparabile scudiero e m’indirizzo verso Massa Marittima.
Alcune correnti di pensiero sull’universo femminile affermano che l’orgoglio di una donna viene letalmente offeso quando dopo un periodo di frequentazione l’uomo si astiene dal “chiedere”, privando la donna della soddisfazione profonda nel dir “no”, che le da l’opportunità di manifestare il suo status superiore.
Ecco, probabilmente avrò sbagliato il mio approccio e alla mia inseparabile compagna di viaggio, la signorina Tomtom, non sarà andata giù la mia riservatezza. Fatto sta che s’è legata al dito la mia indifferenza e mi tira un terribile scherzo, proprio sul finire del nostro conflittuale rapporto.
Nel costruire il percorso verso Massa Marittima, lo disegna in maniera vendicativa e mi conduce per le ghiacciate strade che conducono a Montieri. Un paesino che riposa nel freddo montanaro delle colline grossetane.
Tortuosi tornanti che si evitano anche in piena estate, figurarsi nel bel mezzo di una tormenta di neve che ha lasciato uno strato di ghiaccio vivo sull’asfalto. E il mio ronzinante sui suoi zoccoli di gomma stenta a tenersi in piedi, fatica a tenerci sulla giusta strada. Scendo lentamente ammirando il panorama completamente ricoperto di neve ghiacciata, un percorso scandito da lapidi d’incidenti mortali, e due automobili fresche di crash lungo il guardrail e il tronco d’un albero che non s’è smosso d’un centimetro.
Io, invece, scendo di centimetro in centimetro scivolando talvolta inevitabilmente sulle lastre di ghiaccio.
E di cm in cm giungo a destinazione.
A casa per natale, dopo tredici ore di viaggio per strada. A casa per natale senza neve ma col vento di scirocco che soffia forte e copre il rumore dei miei pensieri.
Viaggiatori e viaggianti. (Appunti di un mini-viaggio)
Avercene di benzina e pasti da dare al mio inseparabile ronzinante, credo potremmo provare la traversata degli oceani, e chissà che non ci si riesca davvero in qualche tempo non lontano.
Firenze. 16 Gennaio 2010.
Andiamo agli Uffizi!
Le idi di gennaio mi riportano a lavoro dopo circa un anno e mezzo di attività intellettuale, e le mie vecchie e immarcescibili converse levi’s ritornano anch’esse a fumare. La scuola ha bisogno di me ma non si sa bene fino a che punto io ne abbia bisogno. Di un lavoro certo, e viste le royalities del mio primo romanzo c’è da lavorare, e rimboccarsi le maniche.
Alla fine di gennaio ritorno a Firenze dopo due anni, stavolta niente giro turistico sull’autobus panoramico alla modica cifra di venti euri, stavolta in giro sul mio ronzinante d’acciaio fino alle soglie di piazza della Signoria. Ai margini della storia che si sviluppa all’interno di quegli infaticabili corridoi che segnano gli Uffizi. Che bella passeggiata, un po’ troppo lunga e un po’ troppo piena. Credo bisognerebbe ritornarci per ogni opera che si è vista e rimanere fermi ad osservarla per un tempo indefinito (tipo orgasmo Yoga alla Sting!), invece in un paio d’ore ci ritroviamo ad inseguire una guida giapponese con tre infaticabili segugi che annuiscono ad ogni respiro e sospirano meravigliati difronte qualsiasi cornice incontrino (anche vuota). Ma vuota non è la bellezza di Botticelli e la sua primavera che tarda a venire da queste parti, e poi la sacra Famiglia di Michelangelo e l’annunciazione di Leonardo. In quelle tele, piccole, sagomate è impresso il sudore degli uomini che hanno fatta grande questa penisola, mentre adesso in qualche letto d’albergo ben altro sudore ci fa grandi.
Roma. 22 Gennaio 2010.
Vacanza (breve) romana.
Con Rino non ci si vede da mesi, e ci ritroviamo a dormire nella stessa casa a Roma, qualche settimana fa sarebbe stato impensabile eppure accade, accade di ricostruire per qualche giorno il tempo grandioso dell’accolita palermitana di kiroy. Molti elementi mancano, e gli anni ce li siamo portati addosso male, ma ci si diverte in giro per la città eterna. Che avrebbe bisogno appunto dell’eternità per poter essere visitata.
Enzo è salito su a ultimare gli studi. Dopo la triennale adesso diventerà dottore di qualcosa nella capitale. Sono mesi che non incontriamo i nostri brutti musi, mi adopero per andarlo a trovare presso il pensionato universitario davanti la sapienza. Ci ribecchiamo e si va in giro per la capitale, facciamo i turisti infilandoci qua e là, col mio ronzinante che scalpita sempre più e con la voce della bella Chiara che sicura guida i nostri passi incerti per la città. Dopo un lungo ed estenuante giro per le vie della capitale, abbastanza affollate da altri ronzinanti non certo validi quanto il mio, finiamo per ritornare al punto di partenza com’è proprio di ogni viaggio che si rispetti. Scendiamo ed Enzo mi invita a prendere un caffè nella sua nuova magione inaugurata da poco. Accetto ma fatto qualche passo Rino mi chiama che s’è liberato urge rimettere in moto il mio ronzinante, ormai dentro però approfitto per fare un giro e svuotare la vescica, l’asfalto romano sollecita. Nemmeno dieci minuti e ritorno fuori dopo aver salutato Enzo, l’indomani ci saremmo rivisti per un altro giro. Ma la frittata è fatta e la sorpresa dietro l’angolo. In questo caso dentro il cruscotto. L’Houdini de no antri ha fatto il colpo, scardinato il mio ronzinante che sonnecchiante non ha opposto resistenza e rapito la bella Chiara che non ha avuto forza per urlare il suo dolore. M’hanno fottuto il tomtom, l’inseparabile compagno del valzer di dicembre, del viaggio per mari e monti e strade innevate. Il tomtom che nemmeno è mio. Punterò sui cartelli stradali per ritornare alla mostra di Leonardo vicino piazza Venezia santiando, come direbbe Camilleri. Alla fine ritorno in loco e comunico la bella notizia ai ragazzi. Urge centro commerciale per l’acquisto di una nuova Chiara…
D’altra parte i soldi sono fatti per esser spesi…
Col magone opprimente di saper Chiara nelle mani di un indegno, dopo una ricca cena a base di vino nostrano, dopo che la vicina di casa delle ragazze di cui siamo ospiti, che è identica alla sora Lella di fabriziana memoria, giunge con un sorriso tipicamente romano ad allietarci ancor di più, si va al cinema per l’evento cinematografico della stagione.
Avatar è un bel giocattolone, e il vino bevuto me lo fa apprezzare.
Ben costruito, ben oliato. Un caleidoscopio di colori e suoni che fanno saltare via dalla poltroncina rosso fuoco che ci accoglie. Il 3D, però, è insopportabile quanto gli occhialini che ti obbligano a tenere per non vedere tutto sbiadito. Si ritorna stanchi a casa riattraversando tutta Roma, soltanto 23 chilometri per andare a dormire, ma sei sempre a Roma, non a Cefalù.
Buona domenica!
Il sole picchia tiepido sulle nostre testoline, il traffico è dignitosamente sopportabile e piazza S.Pietro m’aspetta. Da ateo sono mesi che vado in giro per chiese, non può mancare alla mia collezione la più prestigiosa. Eppure giungiamo in via della conciliazione con un insolito numero di visitatori che affolla la strada. Mi avvicino al primo vigile tenendo calmo il mio ronzinante chiedendo fino a che punto potremmo avvicinarci alla piazza. Il vigile simpaticamente mi dice che potrò arrivare fino al limitare del colonnato, ma dovrò aspettare una mezzoretta, che la gente sfolli. Ottimo, gireremo un po’ in visita a Castel S. Angelo, anche se in mente mi chiedo come mai tutta quella ressa. Ecco la risposta. Poco avvezzo alle scadenze liturgiche dimentico completamente che il pastore tedesco propone la sua settimanale predica ai fedeli assiepati. Sono stato a qualche centinaio di metri dal papa, chissà ne avrò beneficio in seguito?
Non spero, saprò riferire.
Il nostro tour si sofferma a contemplare la maestosità dell’abbraccio alla comunità cristiana. Siamo alla fine di Gennaio ma albero e presepe restano lì, e la cosa stona un po’, ma è una bella giornata e il cupolone brilla nell’azzurro dello sfondo, certe visioni mi fanno più retorico del solito, sotto sotto sono un sentimentalone.
Dopo una buona mezzora di foto stile giapponesi, io Rino ed Enzo ci rimettiamo in moto.
Scalinata di piazza di Spagna con annessi tassisti, cocchieri e cavali con para occhi, bellezze esotiche in posa e noi a crogiolarci la vista.
Fontana di Trevi, immancabile lancio di monetina (da 5 cents, la crisi è notevole e la nuova Chiara – che non ha lo stesso tatto né la stessa simpatia, ahimè non c’è feeling tra noi – ha prosciugato il fondocassa turistico) con annessa foto che comprova la nostra goliardia retrò, ma a Roma è permesso essere goliardici e sopratutto retrò. Certo che Anitona non sbuca fuori, e la gente s’accalca alle inferriate come fosse in attesa della sua apparizione.
La dolce vita invecchia.
Ma vale la pena d’esser assaporata.
Si riparte, e strano a dirsi ritorno a lavoro.